Szymanowski euripideo
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia inaugura la stagione sinfonica con una produzione in forma semiscenica di Król Roger (Re Ruggero) di Karol Szymanowski, opera sconosciuta al grande pubblico e che ha un suo moderno alfiere in Antonio Pappano, che l’ha eseguita diverse volte. La scelta è coraggiosa ma attesta l’interesse dell’Accademia per un repertorio più ricercato, magari dal vasto ‘900 che ancora non ha trovato piena consacrazione nelle sale da concerto o nei teatri d’opera. Con un ottimo cast e a capo di un’eccellente orchestra (una delle migliori d’Europa e del mondo), Pappano dà vita a un’opera singolare e affascinante. La serata è benevolmente accolta dal pubblico.
ROMA, 9 ottobre 2017 – Sir Antonio Pappano sceglie, coraggiosamente, di aprire la stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con un’opera sostanzialmente sconosciuta al grande pubblico: Re Ruggero di Karol Szymanowski, che vide la luce, dopo lunga gestazione, a Varsavia nel 1926, fra le due guerre. Un’opera che si appresta a festeggiare, dunque, quasi il suo primo centenario. L’opera è eseguita interamente nel libretto originale polacco.
L’opera, di fatto una riscrittura delle Baccanti di Euripide (che Szymanowski aveva letto nella traduzione russa di Tadeusz Zieliński), possiede una florida scrittura, assai classica, lontana da taluni sperimentalismi mitteleuropei e ancorata alla robusta incisione musicale delle emozioni del tardo romanticismo. L’architettura è contenuta e quasi ritualmente ripetitiva. La rielaborazione di Szymanowski e Jarosław Iwaskiewicz delle Baccanti è una versione edulcorata dello sconvolgimento religioso portato da Dioniso all’arrivo a Tebe: come Penteo si oppose al dio, così Ruggero si oppone al Pastore che insegna un dio d’amore contro il dio cristiano delle ritualità, della monumentale, corale potenza, millenaria, dei suoi riti ecclesiastici. Ma Penteo muore dilaniato dalla baccanti in piena orgia di sensi, anche dalla stessa madre Agave; Ruggero vede svanire, come in un sogno, la moglie Rossana (novella Agave) col Pastore e si rassicura di esser puro di fronte al sole nascente. L’antropologica opposizione tenebre/luce acquista consueto valore religioso: Ruggero, pur sedotto dal Pastore, non rinuncia al dio cristiano della luce. A mio avviso, il finale, così psicologicamente sospeso, perde la violenta energia dell’originale, rimanendo appeso, di fatto quasi incompiuto. Eppure, le aporie che mi sembra riscontrare a tratti la trama non inficiano un lavoro in grado certamente di emozionare.
Pappano è assai coraggioso nel proporre l’allestimento di un’opera di fatto sconosciuta ai più, difficile e linguisticamente e contenutisticamente (fattori che ne hanno decretato, appunto, la scarsa fortuna): dirige col solito piglio energico una partitura che gli calza a pennello, con timbriche screziate, arcate melodiche intessute in un’orchestrazione fitta ma non intricata, mai realmente opaca. L’orchestra suona splendidamente, rendendoci la pastosità del suono, la monumentalità di taluni momenti, non tralasciando mai i particolari di fino. Come che sia, una qual certa monotonia si registra nel linguaggio sinfonico, nella scelta d’effetto ma limitata della tavolozza timbrica, che cambia sostanzialmente solo in alcuni momenti di autentico pathos o sospensione: come l’incipit nella chiesa bizantina, in cui il coro scandisce con potenza formule in greco bizantino, o le sensuali danze dionisiache evocate dal misterioso Pastore, o la notturna coltre armonica del III atto.
La scelta delle voci è azzeccata, come sempre quando Pappano è sul podio. Lukasz Golinski, un baritono assai corposo, scolpisce con autorevolezza la parte dell’indefesso Re Ruggero. L’australiana Lauren Fagan, versatile voce sopranile in grado di corposità ma anche di effetti morbidi, vellutati, incarna il physique du rôle della regina Rossana: le sue arie, eteree, trasudano quell’orientale seduzione che è fra le soluzioni più squisite della musica di Szymanowski. Il lituano Edgaras Montvidas si trova a suo agio nella parte del Pastore: possedendo una voce squillante, tornita, ma all’uopo duttile, riesce a esprimere tutta la carica mistica e sensuale di una scrittura che affascinerà grandemente Hans Werner Henze, che sul Pastore modellerà il Dioniso delle Bassaridi, un altro fondamentale tributo novecentesco alle Baccanti. Ottimi i comprimari: Marco Spotti (Arcivescovo), Helena Rasker (Diaconessa) e Kurt Azesberger (Edrisi). Lodi al coro, sempre centrato, che regala momenti autenticamente sublimi, come la potente, mistica scena d’apertura nella chiesa bizantina.
Da tempo l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia coniuga la tradizione dell’esecuzione in forma di concerto di opere liriche con una mise en scène semiscenica. Questa volta, però, il duo milanese Masbedo (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) ci regala una suggestiva video-performance. Sopra l’orchestra, un video proietta le elaborazioni di immagini, per lo più in diretta, dei due, che manipolano, con notevole gusto materico, oggetti tra loro disparati per creare tableaux video che commentino l’azione scenica: l’effetto è sensazionale. Massazza/Bedogni affascinano conferendo una profondità psicologica, sinistra, alla vicenda. Su tutti vorrei fare due esempi: l’uso delle immagini dei mosaici della straordinaria Cappella Palatina palermitana a commento del rito bizantino con cui l’opera si apre; le stesse figure effigiate nei mosaici che divengono tatuaggi sul corpo nudo di un attore, che tenta di toglierli quando cede alla ‘nuova fede’ del Pastore. Ma si immaginino paesaggi marini (realizzati con un vero acquario), uso di capitelli e teste di statue classiche; come pure di riprese di siti archeologici. Tutto concorre a ampliare vertiginosamente l’immaginazione dello spettatore. Al termine, grandi applausi tributano il gradimento del pubblico: su un’opera – val la pena di notare – non certo adatta al palato retrò italiano.
Foto Musacchio e Ianniello