La solitudine del genio
di Alberto Ponti
Kristian Järvi eccelle nella Symphonia Domestica di Strauss. Inconsistente il Rachmaninov di Ran Jia
TORINO, 12 aprile 2017 - Se c’è una caratteristica ad accomunare due compositori profondamente diversi come Sergej Rachmaninov (1873-1943) e Richard Strauss (1864-1949) è l’essersi trovati entrambi a toccare l’apice della carriera in un periodo relativamente precoce della loro esistenza, in concomitanza con la radicale mutazione del linguaggio a cui erano rimasti sempre fedeli.
Quando a trentacinque anni, nel primo caso, hai già scritto tutte le tue pagine più importanti (compresi tre concerti pianistici entrati nel grande repertorio e la grandiosa seconda sinfonia) e vedi improvvisamente irrompere all’orizzonte un Oiseau de feu o un Pierrot Lunaire puoi anche rimanere disorientato, tanto più se costretto ad abbandonare precipitosamente la patria in seguito alla Rivoluzione d’ottobre.
Il quarto concerto per pianoforte e orchestra in sol minore op. 40 (1926/41) segna il tentativo da parte di Rachmaninov di ritornare alla creazione musicale, a quasi dieci anni di distanza dall’ultimo suo lavoro originale. L’opera risente molto del turbamento e del senso di smarrimento presenti nell’animo dell’autore: melodie sfuggenti che sembrano non volersi fissare in una forma definita, nervose corse della tastiera intervallate da accordi ora martellati ora arpeggiati al limite dell’evanescenza, un accompagnamento orchestrale di estrema liquidità dal colore torbido e scuro. Sono questi gli ingredienti dei primi due movimenti, tutto sommato dimenticabili, che lasciano in bocca il sapore di un qualcosa di non condotto compiutamente a termine. Fa eccezione l’Allegro vivace finale immerso in un’atmosfera affatto nuova, con l’affacciarsi per la prima volta delle geometrie secche e prosciugate (non indifferenti ai ben più radicali esperimenti di Stravinskij e Prokof’ev) che saranno la cifra stilistica principale della tarda Rapsodia su tema di Paganini e delle Danze sinfoniche.
Un brano di tal genere non ammette che interpreti fuori dall’ordinario (a cominciare dalla storica incisione di Arturo Benedetti Michelangeli), in grado di supplire con una personalità eccezionale a una scrittura mai convincente fino in fondo. La ventottenne cinese Ran Jia, solista all’auditorium ‘Toscanini’ martedì 11 e mercoledì 12 aprile, non riesce ad uscire dall’orbita di un’esecuzione didascalica, lontana da qualsiasi emozione sia pur passeggera, sorretta da una tecnica corretta ma impersonale che finisce per annacquarsi in un virtuosismo monotono e privo di mordente. A poco vale l’ottima direzione di Kristjan Järvi, attenta a non coprire il tocco, peraltro assai debole, della Jia, gratificata solamente da un educato applauso di circostanza, in un’opera in cui il pallino del gioco è in mano al pianoforte dall’inizio alla fine.
Anche Richard Strauss, come il poco più giovane collega russo, non era propriamente un talento tardivo. Comporre un Don Juan a ventiquattro anni non poteva essere che il segno di una predestinazione, tanto più se seguita, a brevissimo giro di ruota, da titoli come Morte e trasfigurazione e Till Eulenspiegel. In un mondo che nei primi anni del Novecento cominciava a fremere per gli esperimenti atonali della seconda Scuola di Vienna, un genio della sua caratura avvertiva il prossimo chiudersi della grande pagina del romanticismo tedesco. Nasce così la Symphonia Domestica op. 53 (1902/03), penultimo dei poemi sinfonici straussiani (la tarda Alpensinfonie avrà già le sembianze di una rievocazione di un mondo ormai perduto). Il pezzo, di una ricchezza sonora senza eguali, composto per una compagine impressionante di oltre 120 esecutori (legni divisi a 4, cui si aggiungono 4 sassofoni, 8 corni, 4 trombe, 3 tromboni, tuba, percussioni, 2 arpe e archi), prende spunto dalla raffigurazione di alcuni episodi della vita famigliare del musicista, con i ritratti, intrisi di un umorismo autentico e perciò affettuoso, della moglie e del figlio.
Järvi non sfigura davanti a uno dei più ardui banchi di prova per qualsiasi direttore, traendo dall’Orchestra Sinfonica Nazionale un suono smagliante ed edonistico anche nei passaggi di più scoperta difficoltà quali la doppia fuga del conclusivo Molto vivace, tesa a rappresentare un litigio tra i coniugi, ma pronto a ripiegarsi nel camerismo più intimista del Wiegenlied, venato di pungente malinconia.
Il maestro di origine estone, presenza sempre gradita al pubblico torinese, consegue un autentico trionfo personale, sottraendosi alle numerose chiamate in scena, dopo parecchi minuti, solo mimando il gesto inequivocabile di chi ha bisogno di andare presto a riposare.