L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

james conlon

Mozart dai mille volti

 di Alberto Ponti

Con il violinista ceco Josef Špaček prosegue all'auditorium 'Toscanini' il Festival di primavera

TORINO, 1 giugno 2017 - Il numero dei capolavori creati dal genio di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) è talmente elevato che, per irrinunciabili esigenze selettive, finiscono spesso per comparire nei programmi dei concerti solo le vette assolute (nemmeno tutte), tralasciando pagine che meriterebbero certamente maggiore frequentazione.

È questo il caso della Sinfonia n. 33 in si bemolle maggiore K 319 (1779), mancante dalla programmazione torinese della Rai addirittura dal lontano 1958, quando a dirigerla fu Antonio Pedrotti.

Onore quindi a James Conlon che giovedì 1° giugno, nel secondo appuntamento del Festival di primavera dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, coincidente con la sua ultima apparizione sul podio per questa stagione, ha scelto di aprire la serata, tutta dedicata al grande salisburghese, con un'opera che ben degnerebbe di comparire accanto alle più note Parigi, Haffner e Linz di poco precedenti o successive. La sinfonia presenta momenti di vertiginosa ispirazione soprattutto nei tempi veloci e il direttore americano, con la scelta d schierare gli archi in una formazione già quasi romantica per le dimensioni (con sei contrabbassi), conferisce al lavoro un vigore di suono che a tratti rapisce con le fulminee suggestioni per quello che sarebbe potuto diventare un Mozart non costretto a morire a 35 anni ma ammesso, insieme a Cherubini, Weber, Beethoven ad affacciarsi ai primi decenni dell'Ottocento. L'unico rimprovero che si può muovere a Conlon è anzi quello di non valorizzare appieno alcuni passaggi che, in un'apparentemente innocua cornice galante, guardano già al di là dell'esperienza classica come i trilli dei bassi nello sviluppo del primo movimento e le acciaccature nel secondo tema dell'ultimo.

Con la grandiosa Sinfonia in do maggiore K 551 Jupiter (1788), summa di ogni esperienza sinfonica mozartiana, l'allievo di Bernstein emerge invece per l'incisività del gesto abbinata a una rara cura del dettaglio, non così scontata in una partitura tra le più eseguite, e sovente maltrattate, dell'intero repertorio. Ecco allora la pienezza dei pizzicati degli archi nell'Allegro vivace iniziale, la pulizia dei ricami del flauto e dei violini nell'Andante cantabile, la precisione degli staccati di corni e trombe nel Minuetto, il meraviglioso intreccio delle voci nella fuga del Molto allegro, mai sacrificato alla superiore volontà di canto di ogni strumento. Il trasporto sul podio è tale che proprio nella stretta conclusiva al maestro sfugge di mano la bacchetta, prima di venire omaggiato dalle ovazioni di un pubblico riconoscente ed entusiasta, che ha saputo conquistare nel corso dell'anno con una serie di esecuzioni mai scontate e sempre innervate da un'autentica personalità. Il suo atteso ritorno lo vedrà impegnato con l'inaugurazione della stagione 2017/2018, presentata nei giorni scorsi, che prenderà il via il 20 ottobre con la Prima e la Terza di Brahms.

Incastonato come una gemma preziosa tra i due pezzi orchestrali, brillava di luce propria anche il Concerto n. 3 in sol maggiore per violino K 216 (1775), con solista il trentunenne Josef Špaček, protagonista di una sfolgorante carriera internazionale oltre che primo violino della Filarmonica Ceca.

Musicista dall'innata cantabilità, sorretta da una cavata di grande profondità e da un'intonazione vibrante e sicura, a Špaček sembra andare un po' stretto lo stile del Mozart più saldamente ancorato alla tradizione settecentesca quale è quello dei giovanili concerti per violino. La sua visione, comunque bilanciata nei passi concertati con l'orchestra, si libera appieno nelle tre cadenze alla fine di ogni movimento, con una libertà nel fraseggio che sarebbe parsa inaudita ai tempi dell'autore, ma oggi apprezzabile nel suo anelito a una rivisitazione in chiave contemporanea di una prassi esecutiva talvolta paludata in un eccessivo rigore filologico. Nell'attesa di ascoltarlo ancora in un opus magnum dell'Otto-Novecento non abbiamo potuto non riconoscere la sua versatilità anche nei due bis concessi a una sala trascinata dalla sua esuberanza giovanile e dal suo sorriso aperto, in grado di contagiare i presenti con l'entusiasmo di far musica. Tra uno sbalorditivo Ysaÿe (Les furies) con la sua ripetuta citazione del Dies irae e un più angelico Bach (Sarabanda dalla seconda partita in re minore) si fa strada la convinzione di trovarsi di fronte a un nome che potrà essere uno dei protagonisti assoluti del concertismo dei prossimi anni. 


 

 

 
 
 

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