Buona la Prima
di Alberto Ponti
Nel segno di Brahms e dei suoi diversi volti l'inaugurazione della stagione 2017/2018 dell'Orchestra Sinfonica Nazionale
TORINO, 20 ottobre 2017 - È convinzione abbastanza diffusa, mutuata dalle impressioni autorevoli di alcuni ascoltatori dell'epoca della prima esecuzione (Hanslick e Hans Richter in testa) che la Terza Sinfonia in fa maggiore op. 90 (1883) di Johannes Brahms (1833-1897) ricopra, nel corpus sinfonico dell'autore, lo stesso ruolo che l'Eroica ha in quello beethoveniano.
In realtà, a parte l'icastica idea iniziale dell'opera, destinata a stemperare la propria drammaticità già nel bonario e sublime secondo tema in 9/4 affidato ai fiati, e una certa tensione strisciante nei bassi dell'ultimo Allegro non compare in tutto il lavoro alcun intento epico. Più che ogni altra sinfonia brahmsiana, la Terza predilige il chiaroscuro, le mezze tinte, su una campitura continuamente cangiante ma priva di increspature e inquietudini. Questo caratteristico colore tende a mancare nell'interpretazione di James Conlon che, nel concerto inaugurale della stagione venerdì 20 ottobre all'auditorium Toscanini, predilige un tessuto sonoro di notevole spessore, frutto anche della decisione, oggi abbastanza inconsueta, di raddoppiare tutti i legni (con una sezione di ben sedici esecutori), sacrificando il sapore quasi cameristico di numerosi passaggi, in particolare nell'Andante e nel sognante, celeberrimo Poco allegretto.
Assai premianti sono invece gli esiti delle scelte direttoriali nella Sinfonia n. 1 in do minore op. 68 (1855-76) eseguita dopo l'intervallo. L'esordio di Brahms nel campo della forma orchestrale più ambita, frutto di un tormentatissimo lavoro ventennale, non poteva apparire più memorabile. Fin dai primi accordi del Poco sostenuto, scanditi dal ritmo incessante del timpano, il maestro statunitense dimostra di trovarsi in piena sintonia con una pietra miliare del repertorio nella quale ogni battuta rivela l'intenzione di essere definitiva, scultorea, immortale. Se la Terza evoca l'agreste fragranza di un Giorgione, la Prima fa pensare alle sontuosità granitica di certi ritratti tizianeschi.
La conduzione di Conlon si estrinseca nella scelta di tempi stringati, eppur capaci di esaltare l'incessante rovello costruttivo del drammatico primo movimento, in cui emergono con il balenio di lampi improvvisi uno staccato dei flauti, un richiamo solitario del corno, una breve frase discendente delle viole. Mai Brahms era stato così vicino a Beethoven, mai lo sarà più in seguito, nonostante tante pagine a dimostrare la lezione sempre presente dell'illustre predecessore.
Anche la poesia del successivo Andante sostenuto non è punto intaccata dal piglio vigoroso della bacchetta, tra l'estatico, timido motivo generatore, tutto racchiuso in una quarta ascendente e discendente, esposto per la prima volta da archi e fagotti, e gli abbandoni lirici del violino solo (l'eccellente Roberto Ranfaldi).
Ma è nello Scherzo, così atipico nelle sue folate quasi distratte, e nell'ampia architettura del finale che Conlon sa trovare la sua cifra più autentica, fatta di stacchi veloci e imperiosi contrasti timbrici, senza timore di ostentare una certa spregiudicatezza non esente da una punta di retorica, ma dimostrando di aver cementato, con autorevolezza da vero leader, l'intesa con un'orchestra che va ormai annoverata tra le più prestigiose d'Europa.
L'energia contagiosa della stretta conclusiva (segnata Più allegro in partitura), in un luminoso do maggiore ormai conquistato dopo le classiche peripezie di un bildungsroman, è valsa da sola il prezzo del biglietto, con gli applausi scroscianti del pubblico torinese nel dare il bentornato al suo direttore principale.
foto studio Più Luce