Profumi d’oriente francese
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ospita Stéphane Denève per un concerto tutto imperniato sull’estetica orientaleggiante francese della Parigi fin de siècle e primonovecentesca: Escales di Jacques Ibert; il Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra in fa maggiore op. 103 “L’Egiziano” di Camille Saint-Saëns; i Trois Nocturnes di Claude Debussy; e, infine, la seconda suite di Daphnis et Chloé di Maurice Ravel. Jean-Yves Thibaudet, famoso per la sua interpretazione dell’Egiziano, fa veramente un eccellente lavoro. Il concerto è compiutamente riuscito.
ROMA, 26 novembre 2017 – L’oriente, reale ma soprattutto fantastico, rappresentò per la Francia fin de siècle, soprattutto per Parigi,e per quella di inizio ‘900, una terra feconda di miti, immagini, sapori. A destare il piacere di chi ammirava quadri, leggeva opere o ascoltava brani d’impronta orientaleggiante era la lontananza profondissima di quelle terre: terre che dovevano, assolutamente, rimanere vergini alla vista, esoticamente lontane, ma assai esplorate nell’immaginazione. L’oriente (anzi l’orientalismo) è proprio il fil rouge che lega e sostiene il concerto di Stéphane Denève e Jean-Yves Thibaudet, opportunamente patrocinato dall’Intitut Français.
Denève sceglie di iniziare con il più ‘giovane’ dei compositori, Jacques Ibert, di cui dirige Escales. Nelle lucide pagine del programma di sala dell’eccellente Mauro Mariani (che citerò d’ora in avanti), leggiamo come Ibert giustamente riabilitato dall’etichetta di minore: questa categorizzazione, infatti, sta abbastanza stretta alla fantasia e alla perizia di Ibert. Escales, in sostanza, è la traduzione in musica di un viaggio nel Mediterraneo. Denève guida gentilmente l’eccellente compagine di Santa Cecilia a salpare per il mare, intonando vaporosamente non solo le marine atmosfere (che faranno da pendant a quelle debussiane del secondo tempo) ma anche all’accenno di tarantella siciliana: secondo un opportunamente lacunoso programma diramato da Ibert stesso, saremmo di fronte alla visione della Sicilia, appunto, venendo da Roma. Il secondo tempo è inconfondibilmente impregnato del più classico orientalismo: spicca l’oboe (complimenti a Francesco Di Rosa!) in una sinuosa e lunga melopea sorretta da ritmate percussioni e un vapore orchestrale che ci trasporta in Marocco, nell’oasi di Nefta – è fra i momenti musicalmente squisiti della serata. Nell’ultima parte della suite, Ibert ci riporta in Europa, in una Spagna trasfigurata in oriente fino al midollo: Denève slancia l’orchestra in ritmi danzanti, a tratti sfrenati, che si gonfiano fino al finale: gli applausi riempiono la sala. Entra, poi, il pianista Jean-Yves Thibaudet e si attacca il Quinto concerto di Saint-Saëns, appunto “Egiziano”. Un orientalismo, come quello di Ibert, fantastico e ideale sì, ma vissuto: Saint-Saëns, infatti, visitò i luoghi che evoca nella sua musica (proprio come Ibert). Il suo, in un certo senso, è un orientalismo che si serve di un linguaggio sì stilizzato, ma quasi rivivificato dai ricordi personali (e reali) che dall’Egitto lo condussero fino in India. Il Quinto concerto maschera il suo carattere orientale per tutto il I tempo: Denève e Thibaudet, infatti, danno vita – nella miglior tradizione francese – a un pezzo che possiede nella bellezza melodica, nell’eleganza aristocratica e nel cristallino virtuosismo della parte per pianoforte la sua marca principale. Thibaudet si amalgama perfettamente con l’orchestra, stagliandosi in aerei e verticali virtuosismi: facendoci godere nella selva di arpeggi, scale, abbellimenti, classicissimi espedienti di impressionante chiarezza formale e snocciolati con estrema perizia. Soprattutto il II movimento è madido dei più densi echi orientaleggianti: Thibaudet si muove agevolmente nelle sonorità stranianti delle scale orientali (che devono, certo, molto alla stilizzata maniera che aveva trovato piena vitalità nell’Aida verdiana), intonando con grande dolcezza il tema del canto d’amore nubiano (che il francese «aveva sentito dai battellieri del Nilo e che, in mancanza di un foglio di carta, aveva annotato sul polsino inamidato della camicia»). Insomma, Saint-Saëns ci delizia con «l’eco di una sorta di viaggio in Oriente» (per usare parole sue). L’ultimo movimento, che indulge nel virtuosismo, mantiene «tutto lo charme della migliore musica francese»: Thibaudet, l’orchestra tutta e Denève prendono meritatissimi applausi. Il francese, poi, concede un commovente bis: la Pavane pour une infante défunte di Ravel, che legge con piglio coreutico (come faceva il compositore stesso, esaltando molto il ritmo di pavana più che la connaturata profonda tristezza del brano), stillando quella malinconia che trasuda da ogni nota del pezzo.
Se il primo tempo aveva opposto, a dittico, avanguardia e classicismo, il secondo oppone due concezioni diverse di un unico modernismo: Debussy e Ravel. I Trois Nocturnes di Debussy sono tra gli emblemi della sua estetica visionaria. Denève attacca Nuages (I), l’evocazione del passare delle nuvole nel cielo: forse calca un po’ troppo sul volume, specialmente in alcuni passaggi, ma l’effetto di impressione musicale, di indefinito, viene ben reso nell’amalgama del vapore orchestrale. Fêtes (II), invece, incontra più la sensibilità e la mano di Denève: buoni i volumi, nel loro uso ‘cinematografico’ del variare dell’intensità in base alla maggiore vicinanza o lontananza del soggetto percepente l’emozione musicale al soggetto della musica stessa, una festa cittadina. Sirènes (III), con la partecipazione dello straordinario coro femminile, riesce etereo, misterioso, sensuale: gli applausi sono meritatissimi. Conclude il concerto la seconda suite di Daphnis et Chloé di Ravel: qui l’orientalismo si fa arcadico. Devève è bravo a schiarire tutti i passaggi composti con estrema maestria orchestrale, specialmente il sorgere dell’aurora nel Lever du jour, cui le oreadi fanno eco, con il rugiadoso turbinio dei fiati che ci immergono nel giorno. Pantomime (Danfi e Cloe impersonano Pan e Siringa)e la Danse générale (fra tutti i pastori)scorrono piacevolmente, specialmente lo sfrenato ritmo della seconda, che rende giustizia alla vividezza della tensione coreutica, caratteristica precipua dell’estetica di Denève. Applausi sonori attestano il gradimento del concerto.