Il serto del Doge
di Roberta Pedrotti
Simon Boccanegra torna dopo undici anni al Comunale di Bologna, ma nelle due compagnie l'eroe eponimo non s'impone. Splende, invece, la classe di Michele Pertusi, fra le luci e le ombre di una locandina, comunque, non priva di soddisfazioni.
BOLOGNA 13 e 14 aprile 2018 - Son poca cosa rispetto ai venticinque che trascorrono fra il prologo e il prim'atto, ma ugualmente undici anni d'attesa per il ritorno a Bologna di Simon Boccanegra hanno alimentato aspettative e distinto nel pubblico chi ricordasse (come chi scrive) il debutto dell'allestimento di Giorgio Gallione allora diretto da Michele Mariotti.
Bene si è fatto a rispolverare la produzione che dal Comunale era poi transitata anche da Parma e Palermo mantenendo la sua semplice funzionalità e alcuni scorci – il quadro marino del primo atto in particolare – adeguatamente definiti dalle luci di Daniele Naldi. Tuttavia, qualche ruga lo spettacolo la mostra appesantendosi in un'azione scenica un po' più goffa e meno spontanea, cui non giova nemmeno l'eliminazione dell'acuto intrecciarsi dei carrugi nel prologo, che avrebbe dovuto contrastare con l'ariosità della successiva aurora sul litorale, e delle pareti marmoree della sala del Gran Consiglio. Oltre a caratterizzare meglio gli ambienti nell'impianto sobrio e tradizionale di Giulio Fiorato, questi elementi sostenevano anche il rapporto fra singoli, masse popolari e spazi.
Bisogna, poi, dire che l'atmosfera non è stata esaltata dalla concertazione di Andriy Yurkevych, che fa valere la sua esperienza internazionale soprattutto sul versante di una salda correttezza complessiva, del controllo di un vigore mai scomposto e di un'orchestra che supera senza problemi le numerose insidie della partitura. Non va oltre, però, non scava nella miniera di colori, di gradazioni dinamiche, di suggestioni e contrasti di cui è disseminata quest'opera. Il fatto che alla prima l'Amelia/Maria di Yolanda Auyanet canti – correttamente – “Orfanella, il tetto umìle” e la sera seguente Alessandra Marianelli segua invece una tradizione metricamente infelice – per quanto benedetta da Abbado e Freni – e renda sdrucciolo l'aggettivo come nella parlata in prosa indica che il direttore non abbia saputo o voluto indicare una lezione univoca nel rapporto testo-musica. D'altra parte l'accompagnamento di “Come in quest'ora bruna” finisce per suonare un po' greve, le trame diaboliche di Paolo Albiani muovono flemmatiche i loro ingranaggi, mentre, viceversa, tutto il fraseggio mantiene una meccanicità di fondo poco propizia, tra l'altro, alla commozione del duetto dell'agnizione o dell'estremo confronto fra Simone e Fiesco.
Nei panni di quest'ultimo, s'impone senza fatica alla prima la classe di un artista di livello superiore. Michele Pertusi incarna l'unione intima di parola e nota, musica e gesto, sguardo e poesia. La nobiltà dell'antico patrizio, il suo orgoglio di casta svela, con il trascorrere degli eventi, una più profonda nobiltà d'animo, la dignità nel rispetto dell'antico nemico e del pianto comune, sciolto con quel canto vellutato che si espande facilmente nella sala del Comunale poggiando sempre saldo sulla parola, sul chiarezza e sul significato dell'intonazione e del fonema. Chi anni fa, di fronte all'illustre belcantista, avesse avanzato dubbi su un futuro in ruoli di questo peso avrebbe perso senza scampo la scommessa, ché l'intelligenza sempre fedelmente al servizio della musica e del dramma musicale sembra avere naturale sbocco in una carriera senza passi falsi.
Pare invece curioso che un tenore come Stefan Pop, avvezzo a Edgardo e Pollione, al Duca di Mantova e a Roberto Devereux, ora quale Gabriele Adorno si appanni proprio nei passi più lirici, dove si richiederebbe un legato ben articolato sul fiato. Invece “Cielo, pietoso rendila” non è il suo momento migliore, mentre vince sfoderando l'acuto (“Pel cielo! Uom possente tu se'!”) o un canto irruente e stentoreo, in particolare nel recitativo e nella prima parte della sua aria, più a suo agio nel fuoco e nella furia che nel languore.
Simone Alberghini, dal registro di basso delle origini, sta sempre più decisamente virando verso l'orbita del baritono verdiano e delinea un Paolo Albiani fosco d'accenti e di timbro, roso dall'invidia di classe che prima lo infiamma e poi, man mano, lo prosciuga.
In quadro tanto cupo, Yolanda Auyanet appare con la consueta professionalità a restituire la dolcezza ma anche la maturità di Amelia/Maria, senza forzare quegli estremi di tessitura che potrebbero metterla in difficoltà e che comunque appaiono meno sonori, in basso, o morbidi, in alto, rispetto centri. La chiarezza del fraseggio restituisce, poi, la coscienza di un personaggio che ha, sì, connotazioni virginali di figlia e amante, ma è anche una donna sulla trentina, di pensieri profondi e carattere forte, capace di tener testa a potenti, innamorati gelosi o importuni, rapitori, folle furiose.
Con la punta di diamante di Pertusi, tutti dovrebbero fare corona al Doge, fulcro anche etico della vicenda, congiunzione tra i drammi privati e le grandi dispute politiche. Peccato che la voce di Dario Solari manchi di quello smalto, di quell'eloquenza che si auspicherebbe per Boccanegra. Soprattutto, se qualche suono non saldissimo o perfettamente a fuoco può esser questione veniale, gli difetta l'ispirazione del fraseggio e la correttezza della dizione non giunge alla tornitura della parola scenica fondamentale per il “corsaro incoronato”.
foto Rocco Casaluci
L'interrogativo intorno all'eroe eponimo rimane aperto anche con la compagnia alternativa, che investe dell'autorità dogale – subentrato in un secondo momento rispetto all'annuncio originario – Stefano Antonucci. A suo vantaggio può vantare la maggior esperienza e una confidenza da madrelingua con il testo, ma la vocalità risulta stanca e inaridita, anche al di là dello sfortunato incidente nell'invocazione che chiude “Plebe, patrizi! Popolo”.
Spande generosamente le risonanze del basso profondo Luiz-Ottavio Faria, non un interprete di magnetica raffinatezza, ma un cantante saldo e autorevole, cosa che non si può dire del periclitante Adorno di Sergio Escobar. Spicca, dunque, senza fatica, Alessandra Marianelli, che ci ricorda quando, ai tempi dei suoi primi passi fra Nannetta e Zerlina, le si pronosticava un percorso simile a quelli di Mirella Freni. E infatti sentiamo una voce fresca, ben a fuoco, ben proiettata, ancora occasionalmente tagliente in alto, ma mai forzata. La figura, che pare dipinta da Piero della Francesca, nonostante l'alta statura suggerisce parimenti una lettura più adolescenziale, ma anche lei sa dare al suo accento un'adeguata consapevolezza perentoria e al debutto come Amelia/Maria gli auspici di un'interessante evoluzione di carriera.
Altro punto di forza della seconda recita è il Paolo Albiani di Leon Kim, nel cui canto leggiamo già brillanti traguardi come Rigoletto o Conte di Luna. È un piacere ascoltare una voce di baritono franca, ben timbrata, levigata, naturalmente elegante nell'emissione, accurata e misurata nel fraseggio, sì da lasciar presagire ulteriori rosei sviluppi.
Non mutano, invece, nell'alternanza, il Pietro di Luca Gallo nonché, provenienti dalla Scuola dell'Opera, la solenne Ancella di Aloisa Aisenberg e l'ottimo Capitano dei balestrieri di Rosolino Claudio Cardile. Bene anche il Coro preparato da Andrea Faidutti.
Il pubblico saluta con favore entrambe le compagnie, con applausi anche a scena aperta.
foto Rocco Casaluci