Squilibri stabili
di Antonino Trotta
Un cast stellare risolleva le sorti di un spettacolo lento e stereotipato. Angela Meade, Alex Esposito, Francesco Meli e Michele Mariotti brillano nell’allestimento torinese dei Lombardi alla prima crociata.
Leggi anche la recensione del cast alternativo: Torino, I lombardi alla prima crociata, 20/04/2018
Torino, 19 Aprile 2018 – Sono passati quasi novantatré anni dall’ultima rappresentazione a Torino dei Lombardi alla prima crociata – quarto lavoro del genio di Busseto che debuttò alla Scala di Milano nel lontano 1843 – e dopo il lungo periodo di assenza finalmente l’opera torna a splendere sotto il tetto del principale ente lirico piemontese con un cast musicalmente eccezionale.
Stefano Mazzonis de Pralafera, direttore artistico dell’Opéra Royal de Wallonie-Liege (con cui l’allestimento è stato coprodotto), firma la regia di questo allestimento nato per accogliere la figlia francese dell’opera, Jerusalem, un rifacimento sull'esempio rossiniano dei Lombardi che Verdi scrisse, attenendosi ai canoni del grand opéra, per debuttare all’Opéra di Parigi. Sebbene il taglio registico rispetti la lettera del libretto e le indicazioni teatrali che Verdi stesso prescrive, la lettura tradizionalista soffre di un’eccessiva lentezza che poco ghermisce l’attenzione di chi siede in sala. A quest’inerzia contribuisce, oltre ai frequenti cambi di scena a ridosso dei vari quadri, la flemma dei movimenti scenici, spesso scontati: prima della cavatina di Oronte si attende, a musica conclusa, che i figuranti rimuovano gli enormi cuscini dell’harem di Acciano; nella grotta, prima di spirare, Oronte è trasportato, di peso, avvolto in lenzuolo dai soldati, in ingresso e in uscita, sempre in un imbarazzante silenzio; durante la battaglia del quarto atto è proiettato un estratto da Aleksandr Nevskij di Ėjzenštejn a cui poi il regista si ricollega facendo assumere a Pagano morente la stessa posizione. Sul palcoscenico i cantanti sono sempre in proscenio, in pose plastiche e stilizzate. Solo nel finale, dove Mazzonis prevede una riconciliazione tra musulmani e cristiani, si percepisce un discostamento dal progetto originario. Una soluzione che, al di là del valore sociale del messaggio racchiuso, non è adeguatamente preparata e sviluppata. Anche la dialogica delle immagini è abbastanza scialba. Le scenografie che si susseguono sono variazioni sullo stesso tema: pannelli fissi che emulano mura, torrioni che, quando sono inclinati, dovrebbero ricostruire la caverna. Qualche nota di brio arriva invece dagli eccentrici costumi di Fernand Ruiz.
Se il versante visivo dell’opera desta qualche perplessità, quello musicale si impone come uno degli spettacoli più avvincenti degli ultimi anni.
La direzione di Michele Mariotti è un capolavoro. La corroborata militanza rossiniana è evidente nelle timbrature orchestrali ma intelligentemente compenetrata con la continua ricerca di accentazioni vibranti che canalizzano la frenesia dell’opera e dei personaggi. L’attenzione al dettaglio è rivolta al rafforzamento del momento drammatico: non esiste una nota che non sia pensata o opportunamente cesellata. Come un elegante interprete bachiano, varia nelle ripetizioni e fa brillare il materiale musicale intriso di verace passionalità, tingendo con sfumature differenti quella politica e quella amorosa o mistica. La concertazione garantisce il perfetto equilibrio tra buca e palcoscenico e crea un’atmosfera di tagliente tensione che nasce dall’inquieta foschia del preludio e deflagra nei toni tempestosi che sovente accompagnano gli interventi del coro o i concertati. Il maestro pesarese fa sì che strumenti intavolino un controcanto nelle arie dei solisti, come i violoncelli in quella di Pagano o i fiati in quella di Giselda, tende all’inverosimile le agogiche della partitura, predilige la leggiadria dell’orchestra e spinge al limite solo quando è necessario, con echi rossiniani e donizettiani che si confanno perfettamente al primo Verdi. L’Orchestra del Teatro Regio risponde prontamente alle sollecitazioni del direttore e la resa complessiva è eccellente. Ottimo il contributo del primo violino Stefano Vagnarelli nel preludio del terzo atto, ripagato da un partecipe applauso a scena aperta.
Il cast è stellare. Alex Esposito è uno scultore della parola e ha fatto di espressività e perizia tecnica preziosi strumenti da intarsio. Il sopraffino belcantista affianca il magnetico interprete nella costruzione di un personaggio tenebroso e protervo che rapisce l’attenzione e domina l’azione con la presenza scenica e vocale di un ineguagliabile fuoriclasse. Voce timbrata, emissione solida, fiati lunghi, fraseggio ipnotico, dinamiche ampie, accentazioni mutevoli e accattivanti specialmente nei recitativi, sillabati limpidi, acciaccature precise. Esposito scocca con mira da predatore le numerose frecce della sua faretra e centra a pieno il suo primo ruolo verdiano animando un Pagano che per completezza non teme rivali sul palcoscenico. Lodevole l’attenzione posta sulla mutazione del personaggio, plasmata a mezzo di un canto che dai toni eroici e sanguigni della scena iniziale migra verso atmosfere introspettive e ieratiche dal cantabile del secondo atto in poi.
Angela Meade non delude le aspettative: la sua Giselda è mozzafiato. Il soprano statunitense possiede uno strumento cristallino e sonoro, impareggiabile per potenza di emissione e padronanza tecnica nella gestione dell’estesa tessitura e dei passaggi di agilità. L’eroina verdiana vive interamente nella dimensione vocale e a essa attinge nel processo di scavo psicologico. Il nobile legato, le interminabili filature, il nitore della linea di canto sublimano l’aura di devozione e misticismo del «Salve Maria!». I fuochi d’artificio della cabaletta al secondo atto veicolano sulla carta la conflittualità interiore della protagonista ma, nella sostanza, scatenano la grinta della stella newyorchese. È il momento più elettrizzante dell’intera serata. Con impeto e tenacia da vera valchiria la Meade scala le vette del pentagramma lanciandosi d’un fiato sui si naturali del rondò, dove la voce esplode per pulizia e squillo, osando una torrenziale puntatura sul re naturale in conclusione dell’aria. Sul versante della coloratura la Meade possiede tutte le qualità del soprano lirico di agilità, picchietta nel concertato iniziate («T’assale un tremito»), attacca i suoni alti e li smorza a piacimento, sgrana le semicrome e le acciaccature della cabaletta finale («Non fu sogno!»), dove inserisce anche una cadenza. Le indicazioni in partitura “grandioso”, ”ardito”, ”brillante” sembrano postillate pensando a lei. Fossi Pereira, farei carte false per averla come Odabella nell’Attila che inaugurerà la prossima stagione alla Scala.
Dopo l’enorme successo nella Gioconda, Francesco Meli rispolvera un ruolo dalla scrittura particolarmente congeniale alle sue corde (forse è l’unico a non debuttare) e conferma di essere l’interprete ideale quando l’estasi religiosa e la passione amorosa definiscono in toto la poetica del principe di Antiochia. Nerbi della sua prova sono il timbro luminoso e pastoso, l’accentazione languida e pertinente, la linea vocale tornita e priva di angolosità. Il canto sfumato sposa la caratura delicata di Oronte e si rivela ancillare alla raffinata sensibilità d’espressione nella celebre aria di sortita. Sebbene si avverta una minima incrinatura nell’acuto centrale di «La mia letizia infondere», nella ripresa della cabaletta «Come poteva un angelo», Meli porta a segno una mezza voce a dir poco sublime.
Convince meno Gabriele Mangione nei panni di Arvino. Sotto il profilo visivo la recitazione è apparsa piuttosto goffa e poco calibrata sul ruolo. C’è dell’intemperanza anche nella resa vocale e qualche forzatura nel registro acuto che emerge nei vari interventi. Tuttavia il timbro è piacevole e nel duettino con Pagano è sicuro e privo di sbavature. L’imponente Pirro di Antonio di Matteo si avvale di una voce profonda e robusta, ma l’emissione è sembrata in più punti cavernosa e poco proiettata. A Joshua Sanders (priore) difettano pronuncia e volume, corretto Giuseppe Capoferri come Acciano. È davvero un peccato relegare Livinia Bini e Alexandra Zabala a piccole parti di fianco (rispettivamente Viclinda e Sofia). Entrambe in possesso di una voce pregevole, entrambe partecipi nel seguire con coinvolgimento le vicissitudini dei figli, entrambe aggraziate nei passaggi lirici. Da rivedere, auspicabilmente, in ruoli più consistenti.
Parallelamente ai solisti, trionfa in questo produzione il coro del Teatro Regio di Torino, finalmente alle prese con un lavoro che ne valorizzi le preziose qualità. Sotto la guida del maestro Andrea Secchi, il complesso affresca i grandiosi quadri vocali – che si estendono per la maggior parte dell’opera e raccolgono l’eredità del precedente Nabucco – con invidiabile generosità sonora e coloristica, sostenendo nei pertichini i brillanti tempi di Mariotti senza appesantimenti o smottamenti e rafforzando l’idea belcantista del direttore. Meritatissimi i calorosi applausi che scrocianti seguono «O Signore, dal tetto natio».
Alla fine dello spettacolo, il pubblico numerosamente accorso tributa la giusta dose di ovazione a tutti gli artisti. Nello squilibrato leveraggio dell’intera produzione, il capolavoro verdiano ha trovato il giusto punto di equilibrio. Difficilmente dimenticherò questa serata.
foto Ramella Giannese