Britten, la regina, nuova vita
di Francesco Lora
Composta da Britten per l’incoronazione di Elisabetta II, ma malcompresa da pubblico e critica, Gloriana rientra nel repertorio con recite memorabili a Madrid. Direzione di Ivor Bolton, regìa di David McVicar, superbo apparato di scene, costumi e coreografie, due compagnie di canto capeggiate da Anna Caterina Antonacci e Alexandra Deshorties.
MADRID, 12 e 13 aprile 2018 – Gloriana è l’epiteto encomiastico col quale fu chiamata Elisabetta I Tudor, regina d’Inghilterra, ed è anche l’opera che Britten compose per l’incoronazione della regina Elisabetta II: anno 1953. Fu un insuccesso, quasi uno scandalo: persino la casa discografica London (poi Decca), che andava pubblicando le opere britteniane dirette dall’autore, evitò di pianificare l’incisione dell’ultima arrivata. Chi pensava al cerimoniale, infatti, si era indignato nel veder dedicata alla ventisettenne nuova regina un’opera incentrata non tanto sul pubblico dello splendore bellico, politico e artistico della storica predecessora, quanto sul privato delle sue passioni, del suo declino e della sua vecchiaia. Chi pensava alla musica, invece, trovò perlopiù noiosa quella partitura con tre corposi atti, una lunga lista di personaggi, una parte protagonistica di taglia colossale, orchestra e coro a pieno organico, l’inclusione – infine – di song e danze alla maniera di Dowland o Purcell, nonché di un intero masque elisabettianeggiante nel cuore dell’atto II. Paradosso: sono questi gli ingredienti che al contrario, attraverso sessant’anni di rare riprese, rendono oggi unica e fascinosa Gloriana, e che hanno persuaso il Teatro Real di Madrid a darne un nuovo allestimento; nove recite dal 12 al 24 aprile, concomitanza non casuale col World Opera Forum [leggi il servizio di Anna Costalonga] (leggi: certezza di impressionare gli intenditori con un segno di distinzione), coproduzione con Londra e Anversa.
Spettacolo d’eccellenza, con un solo punto debole nella concertazione di Ivor Bolton. Direttore musicale del Real, inglese come Gloriana e appassionato di reminiscenze rinascimentali, egli mantiene solido controllo tecnico su un’opera oltremodo complessa e nell’abitudine di nessuno: la puntuale distribuzione di ogni attacco ai cantanti, che lo invocano con lo sguardo, è indicativa della sua abnegazione e del suo merito. Latita nondimeno ciò che strettamente non sia correttezza della lettura musicale, ossia il calcolo dell’intenzione narrativa e della tensione drammatica, nonché una tangibile responsabilità nell’affinamento retorico della compagnia di canto: qualità non facoltative là dove si stia rilanciando a livello internazionale un capolavoro negletto. Dritto al centro del bersaglio segna invece il regista David McVicar, che lascia l’opera alla sua ambientazione originale e, anziché perdersi nel labirinto dei sottotesti, studia ed esalta la ricchezza d’azione e psicologia del testo in quanto tale. Ottiene dallo scenografo Robert Jones una mirabolante reggia-planetario al cui centro la regina si erge come il Sole; dalla costumista Brigitte Reiffenstuel una pittoresca galleria di abiti elisabettiani degna di stupore, premio e museo; dal coreografo Colm Seery un atto II ove, tra masque e danze, vocalisti e danzatori agiscono con pari ruolo e disinvoltura; dalle primedonne delle due compagnie di canto, infine, altrettante complementari modulazioni della vertiginosa protagonista.
La prima Elizabeth è Anna Caterina Antonacci, con l’usuale linguaggio artistico che eccede assai quello richiesto a un cantante lirico: il cinematografico trascolorare dell’espressione rende il personaggio enigmatico e inafferrabile lungo il contrasto degli affetti, tra potere e dolore, furore e ironia, senza mai negare alla frase teatrale e musicale lo charme dell’eloquio e la melancolia del timbro. Sembra l’esatto inverso l’Elizabeth di Alexandra Deshorties, vocalmente tanto più poderosa quanto meno sfumata, e tuttavia in senso altrettanto positivo, ché il personaggio si fa in lei tutto rigore, pretesa e orgoglio, sostituendo alla mobilità psicologica l’ostinazione caratteriale. Il corrispondente amoroso, Robert Devereux, latore di un song memorabile e modellato su Peter Pears, convince meno nell’irruente e mediterraneo Leonardo Capalbo che nell’altero, elegante e stilizzato David Butt Philip. Nelle parti caratteriste di Frances, Lord Mountjoy, Penelope, Sir Robert Cecil e Sir Walter Raleigh, rispettivamente, Paula Murrihy, Duncan Rock, Sophie Bevan, Leigh Melrose e David Soar, nella prima compagnia, giustappongono perlopiù bei pregi individuali, mentre Hanna Hipp, Gabriel Bermúdez, María Miró, Charles Rice e David Steffens, nella seconda compagnia, restituiscono una più vivida interazione scenica. Le linee di canto più rigogliose non necessitano tuttavia sempre alle prime parti del dramma: l’organistico vocione del basso James Creswell, nella ballata del Cantore cieco, è lì a dimostrarlo con la sagacia melodica di Britten.