I purificati Puritani
di Giuseppe Guggino
Si conclude in netto rialzo di risultati artistici il viaggio ideale intrapreso dal Teatro Massimo nella Parigi operistica degli anni ’30 dell’ottocento con un’edizione molto riuscita dei Puritani belliniani, una volta tanto eseguiti in assenza di tagli che – complice la lettura serrata di Jader Bignamini – risulta teatralmente avvincente pur nell’elegante cornice estetica dell’ormai visto e rivisto spettacolo di Pier’Alli. All’ultima recita brillano incondizionatamente tanto Jessica Pratt quanto Celso Albelo.
Palermo, 19 aprile 2018 - Sarebbe difficile immaginare omaggio migliore a Tullio Serafin, in occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa, se non le recite dei Puritani che la Fondazione Teatro Massimo ha affidato alla mano di Jader Bignamini che del maestro veneto sembra aver le carte in regola per ereditare tanto il solido mestiere della concertazione, quanto quell’eclettismo di repertorio che consente al giovane cremasco di passare nel volgere di pochi giorni da Bellini a Beethoven e Bernstein. Né qui si esauriscono le analogie perché, nella sala palermitana del Basile, oggi come nel lontano 1961 i due direttori hanno saputo misurarsi nella non semplice impresa di tendere l’arco narrativo dell’opera belliniana evitando la prassi del taglio scriteriato, quanto mai deleteria di un’opera di tal bellezza. Le recite di Serafin a Palermo cinquantasette anni or sono, oltre che tagliate relativamente pochissimo per l’epoca, a bene vedere, segnarono per Dame Joan Sutherland (che aveva da poco debuttato l’opera a Glyndebourne) la prima occasione per ripristinare – sebbene in una forma solistica mai composta da Bellini, almeno non in quella tonalità – la cabaletta conclusiva che, oltre ad essere pagina non inferiore al valore musicale del resto dell’opera, contribuisce a renderne più plausibile l’improvviso lieto fine.
A Bignamini – al debutto nell’opera nell’originale versione parigina, dopo che la scorsa estate a Montpellier ne aveva eseguito l’adattamento curato dallo stesso Bellini per il San Carlo di Napoli – è dato modo di impiegare l’edizione critica che gli consente di ripristinare la cabaletta cavallo di battaglia della Sutherland nell’originaria forma con la linea di canto principale affidata al tenore e il soprano a muoversi una terza sotto. Oltre a questo ripristino, non una battuta delle tante ripetizioni sovente falcidiate da bacchette scriteriate è omessa, eppure le tre ore e mezza di serata che ne scaturiscono, contrariamente a ogni nefasta previsione, finiscono per inchiodare il pubblico alle poltrone. Alla lunghezza, infatti, Bignamini sa contrapporre un’accurata ricerca timbrica e di dinamiche, il rispetto per il sostegno del canto – che per la resa dei Puritani è ingrediente imprescindibile – non senza le giuste concessioni, senza per questo rimanere ingabbiato nel testo critico: cadono infatti molte incrostazioni di tradizione ma, avendo a disposizione una fuoriclasse come Jessica Pratt, sopraggiunta dopo il debutto newyorkese a rimediare al forfait di altra solista, le si accorda la corona non scritta sui corni del tempo di mezzo del duetto con lo zio nella quale il giovane soprano australiano piazza una delle sue prodigiose messe di voce, così come anche lo slargo nella ripetizione del concertato del finale primo, per consentirle di eseguire da par suo all’ottava superiore la linea di canto scritta, consacrandosi così di diritto tra le Elvire di riferimento, capaci di cogliere l’importanza drammaturgica di quel finale, certamente superiore a quella della polacca o della stessa pazzia del secondo atto.
Delle numerose e preziose informazioni collazionate dall’edizione critica, Bignamini sembra credere un po’ troppo alla questione dei metronomi, orientando le proprie scelte su tempi forse estremamente serrati e rigidi. Se è vero che Bellini scrive all’amico Florimo, in vista della mai avvenuta ripresa napoletana «Lo spartito ti verrà marcato col Métronome, ma ti sia di regola di non attaccarti servilmente, stringi ed allarga i tempi secondo lo vorrà la voce dei cantanti, l’effetto dei cori, infine fà come ti piace, per trovar l’effetto d’ogni pezzo, se il tempo marcato lo rende o troppo veloce, o troppo languido.», è altrettanto vero che il compositore catanese dà per scontata la stessa libertà anche per le frasi puramente strumentali e, infatti, la medesima missiva prosegue con un esempio pratico in tal senso: «Si trova nell’introduzione un mottivo eseguito di 4 corni a tempo 6/8 che ha in mezzo qualche battuta di note a ¾ , ora queste battute per rendere più grandioso il mottivo, vedi che naturlamente il mottivo istesso di porta a slargarle poco poco». Viceversa si sarebbe auspicato maggiore rigore sul testo scritto nelle numerose licenze concesse ai solisti nell’omissione delle ultime frasi a fine numero, alfine di consentirne la chiusa con puntatura.
Difetti di gusto veniali, se poi il cast, oltre alla citata Jessica Pratt, propone un ritorno in grande spolvero di Celso Albelo nel ruolo di Arturo, che si conferma tra i pochissimi tenori oggi capaci di misurarsi con l’improba parte. La serata del tenore spagnolo, colto alla quarta recita in successione, parte con una sortita amministrata con grande accuratezza nel legato e qualche accomodo di dizione, forse funzionale all’appoggio dei suoni, per poi snodarsi in uno scontro sugli scudi con l’avversario Riccardo, surclassato per precisione e volume nelle quartine di forza; né può rimproverarglisi l’unico taglio della serata rispetto a quanto eseguito alla prima assoluta del 24 gennaio 1835, ossia il Larghetto affettuoso “Se il destino a te m’invola”, se non altro per quello che ha da sostenere nel terzo atto, dove è in scena dall’inizio alla fine, riuscendo a sostenere e in maniera mirabile entrambe le strofe della canzone, il lungo duetto con il soprano dove fa a gara con la Pratt sui re naturali, per poi sublimare il concertato coronato dal fa acuto scritto in partitura e generalmente omesso perché universalmente ritenuto oltre i limiti dell’umano.
Nel duetto con il soprano si è ripristinato anche l’Andante sostenuto cantabile presente nel manoscritto autografo (conservato proprio a Palermo e per l’occasione esposto nel foyer del Teatro) sebbene l’edizione critica ritenga tale sezione stralciata già alla prima assoluta dell’opera; in realtà probabilmente quanto eseguito a Palermo corrisponde esattamente a quanto avvenuto alla prima assoluta, poiché in una missiva al solito Florimo all’indomani della prova generale Bellini attestava un taglio nel duetto (da qui la certezza del curatore dell’edizione, Fabrizio Della Seta) che in realtà potrebbe alludere a un piccolo taglio di dodici battute, interno alla sezione (praticato da Bignamini a Palermo), vieppiù che una lettera successiva del 4 febbraio, ossia dopo la quinta recita, vede il Bellini – tanto cristallino nella grammatica della musica quanto oscuro con quella italiana – riferire nuovamente del taglio (e stavolta, quindi, potrebbe intendere l’intera sezione) assieme ad altri raccorciamenti. È suggestivo osservare che Donizetti, testimone di quelle recite mitiche perché a Parigi per allestire nello stesso teatro il Marino Faliero, nel suo Belisario, andato in scena a Venezia il 4 febbraio 1936 (neanche un anno dopo) si ritrovò a comporre una sezione “Se il figlio/fratel/padre stringere” del terzetto Belisario-Irene-Alamiro con evidenti analogie strutturali, nella linea melodica e persino d’orchestrazione con il passo in questione (non si faccia riferimento alla prima ripresa in tempi moderni dell’opera, nella quale Gavazzeni modificò l’orchestrazione passando il tema dai legni ai celli, esattamente la stessa sorte capitata al pezzo in questione nelle mani di Bonynge).
Che Donizetti avesse potuto leggere il duetto da uno spartito canto e piano è fatto anche possibile, giacché già nel 1835 Ricordi pubblicò il passo, non nella riduzione canto e piano dell’intera opera (dove il duetto è tagliato, lastra N8573N), bensì come numero “senza cori e pertichini” (lastra N8576N, da cui è tratto l’estratto seguente) e però ciò non basta a spiegare l’analogia timbrica, spiegabile più come riflesso incondizionato della memoria, come déjà entendu, che non plagio intenzionale, assodato che la partitura non fu stampata in quegli anni da Troupenas, titolare dei diritti.
Ma, al di là dell’oziosa questione di datare con certezza un taglio non definitivo (poiché non espunto dal manoscritto), non si può non concordare sull’opportunità del ripristino, così come non se ne può non lodare la realizzazione della Pratt e Albelo, complice il fagotto e i complessi tutti (orchestra, ma anche il coro) in stato di grazia nelle mani di Bignamini.
In una serata sì luminosa, Julian Kim e Nicola Ulivieri non possono che brillare di luce riflessa, conquistando comunque il loro momento di gloria in “Suoni la tromba”, irritualmente bissato. Funzionali tanto Anna Pennisi (Enrichetta), Roberto Lorenzi (Gualtiero) e Antonello Ceron (Bruno), quanto l’allestimento di Pier’Alli che, a dieci anni di distanza dalla sua nascita nella stessa sala, mantiene immutata la sua eleganza antiteatrale, in fondo ben collimante con l’opera, grazie alla ripresa di Alberto Cavallotti, ancorché privata di qualsiasi lampo nelle luci di Bruno Ciulli, nemmeno durante l’uragano del terzo atto.
Il numeroso il pubblico presente fino alla fine e festante alle chiamate al sipario è comprova di come, al di là di ogni trovata di marketing, l’unica strategia vincente per riempire la sala sia la qualità.
foto Rosellina Garbo