Al sorger della luna
di Andrea R. G. Pedrotti
Si rinnova l'incanto rituale dell'opera all'Arena di Verona con la Turandot firmata da Franco Zeffirelli e diretta con sicuro effetto da Daniel Oren. Raffinatezza e nobiltà d'espressione contraddistinguono le ottime prove di Anna Pirozzi, quale Principessa di gelo, e Gregory Kunde, Calaf; commuove la splendida e applauditissima Liù di Vittoria Yeo.
VERONA, 30 giugno 2018 - In fondo l’esecuzione di un brano musicale non è altro che un rito esoterico, finalizzato all’interpretazione degli arcani sonori contenuti fra i grafemi del pentagramma. Si tratta d’un lavoro scientifico e, non a caso, la musica presenta forme logiche capaci di accostarla alla matematica. Un’altra disciplina ascrivibile alla matematica è la grammatica, governatrice della prosa d’ogni lingua ed è proprio la prosa del melodramma ad animare i teatri lirici del mondo; in Arena, al contrario, questa prosa si fa poesia, la poesia dell’aureo perigeo lunare che sorge esattamente nel momento in cui Calaf, duettando con Turandot, annuncia il giungere dell’alba capace di liberare dai ghiacci il cuore della principessa di gelo. Sono le scintillanti pagode del palcoscenico, assieme alla luce riflessa del mesto satellite governato da Selene a illuminare la marmorea ala dell’anfiteatro che par duettare con gli elementi celesti, al pari dei protagonisti sul palcoscenico.
Turandot è un’opera fiabesca, ricolma dei grandi misteri d’oriente, e le atmosfere ieratiche insite nel testo si esaltano nell’esoterismo dell’analisi musicale vissuta in un grande tempio, che, parimenti al testo, si mantiene immutabile attraverso ai secoli, attento sacerdote d’uno spettacolo che si rinnova ogni sera da oltre un secolo. Nessuna serata areniana può essere uguale a se stessa: basta un colpo di vento, una nuvola dispettosa, ma anche un luccichio maggiormente sfavillante fra gli astri della volta celeste. Ogni cosa appartiene a una ritualità inconoscibile, ma ordinata in cui l’uomo, anche lui, deve essere capace di svolgere il compito assegnatogli. È l’uomo a portare a compimento il rito musicale, importante quanto il saluto delle candeline delle gallerie, minute fiamme omaggianti alle compagne del firmamento.
La regia di Zeffirelli, quando funziona, è fra le più efficaci viste in Arena a firma del regista fiorentino. L’alchimia comunicativa che deve unire tutti gli elementi ora elencati trionfa solo se la reazione chimica è capace di provocarne una uguale a se stessa nell’animo di ognuno dei singoli spettatori presenti nell’anfiteatro. Nel 2014 [leggi la recensione] proprio Turandot riuscì nell’intento e, ora, a distanza di quattro anni, il rito torna a compiersi.
Una messa in scena come quella areniana risulterebbe eccessivamente ridondante se ridotta in un teatro di tradizione, ma qui funziona, col suo stile da peplum cinematorgrafico trasposto in estremo oriente.
E ancora una volta funziona la concertazione di Daniel Oren, assai attento a sottolineare la componente di grandiosità e magnificenza contenuta nell’allestimento zeffirelliano. Il direttore israeliano si esalta, in particolar modo, a partire dal secondo atto, assecondando le intuizioni visive del regista fiorentino e assecondando il desiderio dei numerosi presenti nell’esplosione dell’applauso a scena aperta. Certo, questo sacrifica alcune battute della partitura, che vengono coperte dal fragore dell’entusiasmo collettivo; tuttavia la drammaturgia complessiva non ne risente più di tanto, anzi sa regalare la maggiore emozione nella morte di Liù.
Proprio Liù è la trionfatrice della serata, commovente alle lacrime in uno struggente "Tu che di gel sei cinta", anche grazie all’eccellente prova di Vittoria Yeo, che, con una prestazione eccellente, nobilita la grandezza insita nell’umanità d’un personaggio ammirevole per il coraggio e l’emotività del palpitar d’un cuore sconosciuto a tutti gli altri protagonisti. Il coraggio, nonché la tenacia, di Liù sta anche nel prendersi cura del vecchio Timur che emoziona anche grazie alla perizia della Yeo, perfetta nella gestione dei fiati e nell’esecuzione di un filato inappuntabile. Al termine dell’opera, finalmente e meritatamente, è proprio il sentimento della giovane schiava a guadagnare, grazie a Vittoria Yeo, l’ovazione più fragorosa degli oltre dodicimila presenti.
Ottima anche la Turandot di Anna Pirozzi, capace di impersonare una Principessa di gelo raffinata nel canto, come nella recitazione. La scena degli enigmi è eseguita con stile assai raro, visto l’uso –invero deprecabile- di declamare la parte con fin troppa veemenza. Al contrario la Pirozzi ha la regalità che dovrebbe essere propria di una principessa e con tale regalità giunge al termine della recita.
Bene anche Gregory Kunde, come Calaf, che, forte della sua estrazione belcantista, punta su un’interpretazione assai raffinata e musicalmente precisa. Buon attore non palesa alcuna difficoltà nel corso della recita e, addirittura, si fa preferire nel bis di “Nessun dorma”, piuttosto che nella, seppur ottima, prima esecuzione dell’aria, quando l’esecuzione del celeberrimo Si finale appare ancor più squillante.
Accanto a loro i bravi Marcello Nardis (Pang) e Francesco Pittari (Pong). Più interlocutoria nell’emissione e nella gestione dei fiati la prova di Federico Longhi (Ping).
Il cast è completato da Antonello Ceron (Imperatore Altoum), Giorgio Giuseppini (Timur), Gianluca Breda (Mandarino) e Ugo Tarquini (Il Principe di Persia).
Eccellente, come sempre quest’anno, la prova del coro guidato da Vito Lombardi, a cui va il nostro plauso, per aver riportato il complesso artistico areniano al livello che gli compete da sempre. Parimenti ottimo il coro di voci bianche A.d’A.MUS diretto da Marco Tonini
Regia e scene erano di Franco Zeffirelli, i costumi di Emi Wada, i movimenti coreografici di Maria Grazia Garofoli e le luci di Paolo Mazzon.
foto Ennevi/Arena di Verona