Fidelio alla Scala, ombra di Wagner
di Francesco Lora
Dopo tre anni e mezzo, ecco la ripresa del capolavoro beethoveniano nella lettura teatrale della Warner (ora più blanda e distratta) e in quella musicale di Chung (inedita e di rara flessibilità). I cantanti ricalcano perlopiù stereotipi wagneriani, ma magnifica è l’eccezione di Pisaroni come Pizarro.
MILANO, 7 luglio 2018 – Il Fidelio di Beethoven con regìa di Deborah Warner e scene e costumi di Chloe Obolensky è lo stesso che inaugurò la stagione d’opera 2014/15 del Teatro alla Scala, al tramonto della direzione musicale di Daniel Barenboim e agli albori di quella artistica di Alexander Pereira [leggi la recensione]: dal 18 giugno al 7 luglio scorsi, per un ciclo di sette recite, lo si è visto una seconda volta nella sala piermariniana, avvalorato da una locandina del tutto rigenerata nella sua parte musicale. A volerla dire tutta, anche la parte teatrale non pareva più la medesima: benché attuata a cura della regista in persona anziché di un suo assistente, in essa il lavoro con i nuovi attori si è fatto più generico e sbrigativo, sostituendo al crudo realismo d’origine – ossia la posposizione del modello virtuoso alla riproduzione del mondo feroce, squallido e indifferente delle prigioni – formule ben più blande ed esiti talvolta distratti. Un caso per tutti si individua nella stretta del quartetto nell’atto II, ove Leonore e Florestan gustano ormai vendetta, libertà e amore, Don Pizarro maledice l’ora della propria sconfitta e Rocco prende finalmente le distanze dal tiranno: quest’ultimo, pugnale alla mano, dovrebbe essere tenuto immobilmente in scacco dall’eroina, armata di pistola e posta a scudo del marito in catene; nelle recite milanesi s’è invece visto un curioso balletto, durante il quale i due personaggi si scambiavano di posto, lasciando via via la sorte di Florestan in balia del più vicino. Una distrazione che dal realismo radicale può precipitare al comico involontario.
Quanto al discorso musicale, benvenuto è invece l’alleviamento dell’aura tragica, inesorabile e pessimistica, quattro anni fa evidente e fondante nella concertazione di Barenboim e ora sostituita da un morbido adeguamento agli eclettici toni dell’azione: in una volta sola, Myung-Whun Chung asseconda così anche la fresca duttilità delle scene di commedia, ispira i cantanti a un’indagine coloristica e psicologica più mobile e frastagliata, esalta il sempre più ineguagliabile corredo timbrico di orchestra e coro scaligeri. I risultati sarebbero stati memorabili con cantanti più solleciti ad avvantaggiarsi di tanto direttore; la compagnia, però, è ancora una volta assemblata all’insegna di un titanismo monocromatico e anacronistico: quello che non ravvisa nel Fidelio un tardivo, eroico, classico, tenero, sfumato esempio dell’età di Mozart, bensì vi istituisce un prodromo della poetica di Wagner (wagneristicamente filtrata attraverso il Novecento). Così, nell’impeto da virago la Leonore di Ricarda Merbeth evoca Brünnhilde; nella mestizia dell’accento il Florestan di Stuart Skelton evoca Parsifal; nella bonarietà paterna il Rocco di Stephen Milling evoca Hans Sachs. Li contraddice tutti l’inedito Pizarro di Luca Pisaroni: figura giovanile, narcisistica, pseudointellettuale, dunque ancor più sottile e subdola, insospettabile nell’operato – così s’incarna un degno antagonista, non esibendo volgarità e truculenza – nonché suffragata dal pregio di un canto all’italiana. Pieni di correttezza il Don Fernando di Martin Gantner, la Marzelline di Eva Liebau e lo Jaquino di Martin Piskorski.
foto Brescia Amisano