Scala, l’idioma del Pirata
di Francesco Lora
Ritorno del capolavoro di Bellini nel teatro che ne vide la creazione: uno spettacolo di nobilissime intenzioni con la sola menda – ma a tutto campo – di fare capo ad artisti non sempre idonei a un comune discorso secondo l’idioma stilistico latino; di caso in caso: Frizza, Sagi, Pretti, Yoncheva e Alaimo.
MILANO, 6 luglio 2018 – Tra le attuali linee-guida artistiche del Teatro alla Scala v’è quella di riportare in scena le opere-cardine del repertorio italiano ottocentesco: numerose esordirono sulla piazza milanese, numerose sono tuttora merce corrente, numerose sono invece state accantonate. Si tratta di un progetto di rivalutazione ben ponderata, per dimostrare che titoli ieri popolari e oggi ricercati non devono finire appannaggio di pochi festival specializzati e con risorse non sempre adeguate a quelle dei massimi teatri storici. Quanto urga questa volontà lo dimostrano gran parte delle nuove stagioni d’opera nelle fondazioni liriche italiane, annunciate a raffica negli ultimi giorni: una scelta di titoli oltremodo limitata, comune a quasi tutte le istituzioni, povera di intento e stimolo culturale, sconcertante per il melomane vagabondo e penosa innanzi al pubblico internazionale. Mentre si officiava questo poco edificante rito, alla Scala è invece tornato, dopo sessant’anni giusti dai tempi di Callas, Corelli e Bastianini, un’opera di strutture musicali e scogli canori irregolari e irti, la quale è anche il manifesto del più fatale e tempestoso Romanticismo italico: Il Pirata di Bellini, con otto recite dal 29 giugno al 19 luglio. Uno spettacolo di nobilissime intenzioni con la sola menda – ma a tutto campo – di fare capo ad artisti non sempre idonei a un comune discorso secondo l’idioma stilistico latino; in altre parole: un Bellini di qualità come lo si potrebbe ascoltare a Vienna, Monaco o Berlino, ma che ascoltato alla Scala sa più di ospitalità allo straniero che di agognato ritorno a casa.
Mira bassa nel nuovo allestimento con regìa di Emilio Sagi, scene di Daniel Bianco, costumi di Papa Ojanguren e luci di Albert Faura. Il regista in persona rivendica, nel programma di sala, la prima origine dei mali: «per riuscire a creare il mondo embrionale e visionario che desideravo nella mia messa in scena ho cercato l’essenzialità anche nella scenografia e nei costumi, eliminando tutti quei dettagli che contestualizzano l’epoca e i luoghi in cui si svolge l’azione»; ai fatti: le solite divise, cappotti e crinoline ispirati a un tardo Ottocento, campagne innevate, orizzonti foschiosi, visioni astratte. Peccato che la partitura del Pirata sia invece imbibita di colore locale siciliano, vuoi nel ritmo mediterraneo dei suoi metri di danza, vuoi nel suo lacrimoso melodiare in modo minore, e contraddica così all’ascolto ciò che Sagi offre a occhio e pensiero. Si lamenterà poi l’occasione perduta – dal regista per primo – di riagganciare al rondò “conclusivo” di Imogene la trascinante, fulminea e furiosa scena finale dell’opera, tagliata all’indomani della “prima” del 1827 per basse questioni scenotecniche (quei due soli minuti di musica imponevano un cambio di fondale e la relativa chiusura del sipario) ovvero filo-canore (perché proseguire oltre il rondò della primadonna, se lì il pubblico era già volato all’entusiasmo?). Senza quella scena l’opera resta però incompiuta: Imogene rimane a delirare senza l’eroismo di raggiungere sul patibolo Gualtiero condannato, il mancato suicidio del protagonista nega al romantico intreccio l’ineluttabilità del destino, la partitura stessa tende frenetica – ma inutilmente – all’ultimo tassello lasciato implicito.
Quanto al resto, è un merito del concertatore Riccardo Frizza se l’opera è data di fatto senza tagli. Vero: con un’orchestra e un coro rodati da Chailly, Chung e Gatti, dalla partitura belliniana si potrebbero cavare ben altri virtuosismi retorici, dinamici e timbrici; qui si è ascoltato piuttosto il docile servizio ai cantanti, onde dar loro fiducia in parti impervie quando non inadatte. Nella gerarchia interna del Pirata, il tenore ha maggiori oneri e onori rispetto al soprano; e non è un caso che l’opera abbia trionfato soprattutto al séguito di Giovanni Battista Rubini, storico creatore della parte di Gualtiero e rifondatore della tenorilità alla Byron. Non mancano oggi tenori adatti a evocare il suo mito, ciascuno a proprio modo: in particolare Brownlee, Camarena, Flórez, Mironov e Osborn; il Piero Pretti della Scala affronta con coraggio l’acutissima tessitura, varia la prima cabaletta curiosamente semplificandone linea e picchi, fa valere l’accento virile e l’abnegazione dello studio. Accanto a lui, Sonya Yoncheva è un’Imogene di più sontuoso mercato: il suo corredo va dagli ampi modi da diva al volume importante, fino all’emissione mascherata che ne traveste callasianamente il timbro; ma se l’agilità di forza è articolata con sufficiente piglio, spiacciono i difetti d’intonazione messi a nudo nel cantabile. Terza parte per rango è quella baritonale di Ernesto, con la sua forbitezza di vocabolario che ormai mal si addice all’irruvidito Nicola Alaimo. Lussuoso il comprimariato, dall’Itulbo di Francesco Pittari al Goffredo di Riccardo Fassi, per non dire dell’Adele di Marina De Liso.
foto Brescia Amisano