Sempre Viva Verdi!
di Luigi Raso
Nabucco ritorna al Teatro di San Carlo dopo ventun anni in una produzione che vede il felice debutto al Massimo napoletano di Francesco Ivan Ciampa. Punta di diamante del cast, l'Abigaille di Anna Pirozzi. Continua, invece, a non entusiasmare l'allestimento di Scarpitta tenuto a battesimo da Riccardo Muti a Roma nel 2011.
NAPOLI, 9 ottobre 2018 - È in una fredda sera dell’inverno del 1841 che Bartolomeo Merelli, impresario del Teatro alla Scala, nella Galleria De Cristoforis (non esiste più: si trovava tra l’odierno Corso Vittorio Emanuele II e via Montenapoleone, ovviamente a Milano) consegna a Verdi, tristissimo e riluttante a continuare la carriera di compositore, il libretto di Nabucco.
La storia è nota e la racconta lo stesso Verdi in una lettera autobiografica del 1879 indirizzata a Giulio Ricordi: “…Rincasai e con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomici ritto in piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto: senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: Va', pensiero, sull’ali dorate. Scorro i versi seguenti e ne ricevo una grande impressione, tanto più che erano quasi una parafrasi della Bibbia, nella cui lettura mi dilettavo sempre…”.
A leggere il racconto di Verdi c’è da attribuire al caso (il libretto che cadendo si apre proprio su Va’ pensiero..) la nascita di uno dei più celebri cori d’opera e del primo grande successo teatrale verdiano. “Con quest’opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica”, continua a raccontare Verdi.
Il capolavoro giovanile (quando l’opera andò in scena alla Scala, la sera del 9 marzo del 1842, Verdi non aveva compiuto ancora ventinove anni) torna al San Carlo dopo ben ventuno anni d’assenza, nell’allestimento del Teatro dell’Opera di Roma, proposto nella Capitale nel 2011 con la direzione di Riccardo Muti ed evento delle celebrazioni per i 150 anni dalla dichiarazione dell’Unità d’Italia.
La messa in scena - regia e scene di Jean Paul Scarpitta, costumi di Maurizio Millenotti e luci di Urs Schönebaum - mi aveva convito molto poco sette anni fa per il sostanziale immobilismo registico e per l’impianto scenografico, scarno ed eccessivamente indugiante su fondali scuri dominati da una luna nebulosa, che richiamano le illustrazioni della Bibbia di Gustave Doré. E dopo sette anni l’impressione sullo spettacolo non è cambiata in positivo. Gli elementi sul palcoscenico sono pochi: una piccola piramide, più simile a un cumulo di terra, pochi alberi neri su uno sfondo laminato d’oro. Manca perfino il fulmine che cade sulla corona di Nabucco.
Scarpitta, come ha dichiarato nelle note di regia, ha inteso mettere in scena “non il dramma stesso, ma il riflesso che ha nella coscienza”, eliminando ogni traccia del divino e del trascendente, adottando un punto di vista umano. Con queste premesse c’era da attendersi un maggiore scavo nei complicati rapporti interpersonali, ma la visione registica sembra relegare il dipanarsi dell’azione all’interno di un estratto delle didascalie del libretto del Solera; perfino il coro, dolente e incastonato nella perenne penombra della scena, sembra assolvere a una funzione soltanto oratoriale.
Eleganti e immediatamente identificativi della contrapposizione tra Ebrei e Babilonesi sono i costumi di Maurizio Millenotti che richiamano fedelmente i motivi del tallit ebraico e i costumi babilonesi come riportati dalla iconografia tradizionale.
Se da punto di vista registico lo spettacolo convince poco, uno dei motivi di interesse di questa produzione è da individuare nella direzione del giovane direttore d’orchestra, Francesco Ivan Ciampa, avellinese, il quale debutta al San Carlo, sostituendo il previsto Nello Santi. Si avverte sin dalla sinfonia che lo spettacolo è costruito con cura artigianale, dalle mani di chi - dopo anni di gavetta- ha appreso approfonditamente la complessa arte di costruire uno spettacolo lirico, l’“assemblaggio” certosino di cantanti, orchestra e coro.
Ciampa rinuncia, fin dalla sinfonia, all’inutile esaltazione dei clangori orchestrali nei quali tanta tradizione, soprattutto per il primo Verdi, tende a inciampare. Opta invece per una lettura incisiva, priva di convulse strette agogiche e ingombranti volumi sonori, anche nei momenti più infuocati dell’opera (“Mio furore, non più costretto, fa dei vinti atroce scempio”), ma preferendo esaltare gli aspetti più cantabili della partitura e il preciso e bilanciato accompagnamento orchestrale dei cantanti. L’orchestra risponde con precisione al gesto chiaro, a tratti eloquentemente plateale, del giovane direttore.
Il coro, che ben potrebbe definirsi uno dei protagonisti di Nabucco, appare sostanzialmente disciplinato, dal volume giusto e compatto, salvo lo sbandamento durante la cabaletta di Abigaille; il Va’ pensiero è dolente ed emozionante, con la giusta dose di sospirata nostalgia che si addice alla monodìa, “una grande aria per soprani, contralti, tenori e bassi”, secondo la calzante e geniale definizione di Rossini. Al termine del coro, le insistenti richieste di bis vengono accolte dal direttore.
Punta di diamante della serata è la napoletana Anna Pirozzi, la quale, in una delle parti più impervie dell’intero repertorio lirico, delinea una Abigaille dalla voce potente, omogenea nell’intera tessitura, e con acuti squillanti, bassi ben timbrati, timbro che ben si addice alla personalità assetata di potere della ex schiava babilonese. La sua è un’interpretazione dalla sottile perfidia, anticipatrice dei disegni criminosi della satanica Lady Macbeth, ruolo che sta interpretando al Festival Verdi 2018 di Parma (leggi la recensione). La risolutezza di Abigaille sfuma, nel finale, nel suo sincero e accorato pentimento: la voce della Pirozzi, grazie al dominio della tecnica di emissione, si assottiglia, diventa quasi eterea.
Il Nabucco di Giovanni Meoni ha voce di buon volume, dal timbro gradevole ma troppo chiaro per la parte del re babilonese. Pur dotato di elegante legato e di buona emissione, il suo “Dio di Giuda” appare a tratti eccessivamente trattenuto e con quale nota incerta. Il suo è un Nabucco tormentato, elegante nella linea di canto e che trova accenti dolenti, anticipatori di quelli di Francesco Foscari, nelle meravigliose frasi di “Chi mi toglie il regio scettro? …O mia figlia! E tu pur anco non soccorri al debil fianco?”.
Lo Zaccaria di Rafal Siwek ha voce timbrata e solida, dizione chiara: il basso polacco disegna un Gran Pontefice dalla grande autorevolezza.
L’Ismaele di Antonello Palombi ha voce dal notevole volume, ma la sua emissione è perennemente impostata sul forte e su accenti tribunizi, non alleggerita neppure nei momenti di maggiore intimità.
Convince per la calda intensità del timbro e l’interpretazione dolente la Fenena di Carmen Topciu.
Completano il cast vocale il Gran sacerdote di Gianluca Breda, l’Abdallo di Antonello Ceron e l’Anna di Fulvia Mastrobuono.
Il ritorno di Nabucco al San Carlo è accolto da un grande successo di pubblico che rinuncia alla consueta corsa ai taxi post teatro. Prolungati e convinti applausi per tutti gli interpreti, successo personale per Anna Pirozzi e Francesco Ivan Ciampa.Tiepidi, invece, gli applausi che accolgono l’uscita del regista Jean Paul Scarpitta.
Nel giorno (10 ottobre) del compleanno di Giuseppe Verdi ora e sempre Viva Verdi!
Brevissima nota mondana finale: dal palco reale ha assistito alla rappresentazione Gérard Depardieu.