Much ado about Turturro
di Giuseppe Guggino
Se alquanto deludente è il debutto nella regìa d’opera di John Turturro, il Rigoletto andato in scena al Teatro Massimo di Palermo si segnala per le ottime prove di George Petean nel ruolo eponimo e di Luca Tittoto, Sparafucile di lusso. Buona la prova di Coro e Orchestra, nonostante l’agogica eccessivamente serrata impressa da Stefano Ranzani.
Palermo, 21 ottobre 2018 - È il lavoro ad un progetto su Shakespeare con musiche di Verdi ad aver convinto John Turturro ad accettare il debutto nella regia d’opera; ne dà egli stesso nota nel breve scritto ospitato dal programma di sala che, dopo una carrellata autobiografica, suona per la verità più come un’excusatio piuttosto che la rivelazione di una personale chiave di lettura. Ed excusatio non petita… non ci sarebbe poi molto da scrivere su di un progetto complessivamente poco convincente dal punto strettamente teatrale e dalla cifra estetica anche piuttosto sfuggente; eppure sul quale il Teatro Massimo di Palermo sembrava aver scommesso non poco, facendone la prima produzione a essere realizzata “in casa” dell’intera stagione operistica corrente. Peccato! Perché nonostante la collaborazione di due tra le firme più interessanti in ascesa nel teatro d’opera – Benedetto Sicca e Cecilia Ligorio (contemporaneamente impegnata nell’allestimento di Semiramide alla Fenice) – lo spettacolo pare scostarsi poco o punto da un impianto tradizionale, solamente privato di fasto negli scorci e con qualche sporadica stravaganza poco comprensibile. Se alla mancanza della Mantova rinascimentale si può soprassedere anche di buon grado, il “settecento dark” in cui l’azione è traslata risulta poco messo a frutto, nessun tentativo di far del Duca un Marquis de Sade, sicché risulta appena funzionale a fornire il destro ad Alessandro Carletti per un disegno luci suggestivo da cima a fondo, da par suo. Per nulla poetico, anzi piuttosto incoerente risulta il finale dell’opera in cui Gilda appare in scena sulle sue gambe (forse uno spettro, secondo l’idea registica?), mentre Rigoletto continua a rivolgersi ad un sacco riempito di fiori rossi; e lo stesso potrebbe dirsi del rapimento del finale primo, risolto con un poco pratico furto dell’intera casina a due piani, all’interno della quale – obbiettivamente – il lettone stile impero fa un poco sorridere: Gilda, in fondo, era figlia di un buffone di corte, non Paolina Bonaparte! Né le altre scene di Francesco Frigeri sembrano rivelare maggior coerenza nell’interrompere interessanti fughe prospettiche sbilenche con porte e specchi (molto poco settecenteschi) rigorosamente retti. Se si sorvola anche sugli omaggi registici alle peggiori convenzioni del teatro d’opera con “Sì tremenda vendetta” in proscenio e la manine ritmate dei cortigiani nel primo quadro, oltre al già lodato disegno luci, non rimane da apprezzare che i costumi di Marco Piemontese, tanto più simpatici quanto si fanno eccentrici, rivelatori della ricerca di una linea quantomeno autentica e originale.
Decisamente meglio la parte musicale, nonostante le improvvise defezioni per motivi di salute del Duca titolare sin dalla prima recita e di Gilda nelle ultime recite di cui si riferisce. Se Stefan Pop è un tenore dalla voce fibrosa e avaro di sfumature che si disimpegna puntando sulla potenza gli fa da contraltare una Ruth Iniesta molto a suo agio nel ruolo di Gilda, affrontato con buona varietà di intensioni interpretative, discreta ampiezza e freschezza di mezzi, nonostante costretta a numerose recite ravvicinate dall’indisposizione della collega. Nel cast sono però le voci maschili gravi di George Petean e Luca Tittoto a trionfare; il primo è baritono dai mezzi notevoli, capace di depurare quasi totalmente il ruolo del buffone da effetti caricaturali, risolvendo nel canto ogni sfaccettatura del personaggio; il secondo, Sparafucile saldissimo su tutta l’estensione, sa farsi artefice di gravi sbalorditivi eppure esenti di ogni autocompiacimento, per tratteggiare vocalmente un sicario lucido, per nulla laido e – appunto per questo – tanto più spaventevole, cui si coniuga l’apprezzabile Maddalena di Martina Belli.
Vario il livello comprimariale, dove non faticano ad emergere per professionismo del Borsa di Massimiliano Chiarolla e del Marullo di Paolo Orecchia sul Monterone poco autorevole di Sergio Bologna e sui coniugi di Ceprano, Adriana Calì e Giuseppe Toia.
Dal podio Stefano Ranzani delude non poco, puntando al facile effetto dei clangori e alla bruciante teatralità verdiana tutta giocata sull’agogica forsennata che, in più punti, mette a repentaglio la tenuta tra palco e buca. Peccato doppio, perché l’Orchestra in questa circostanza suona davvero bene e perché a fare le spese di questa corsa è – in misura maggiore – il Coro maschile del Massimo palermitano, preparato da Piero Monti, come non mai in sì eccellente forma.
Successo di pubblico fino all’ultima recita. Dopo la diretta della prima su Radio 3, l’appuntamento è per la differita del 25 ottobre su Rai 5: forse un po’ troppo rumore per John Turturro.
foto Franco Lannino e Rosellina Garbo