Il teatro dell’assurdo
Dopo una lunga gestazione, non priva di fascino romanzesco, Fin de partie, scènes et monologues, opéra en un acte di György Kurtág, tratta dall’omonima opera teatrale di Samuel Beckett, vede la luce al Teatro alla Scala di Milano.
Milano, 24 Novembre 2018 – Domande frammentarie e pensieri balbuzienti si rincorrono senza sosta per più di due ore: arrendersi significa necessariamente perdere o la velleità ai piedi di un’inevitabile disfatta racchiude l’essenza della sconfitta stessa? Meglio rinunciare a vivere o sopravvivere rinunciando alla vita? È la volontà, come sosteneva Schopenhauer, nella sua irrazionalità, a generare dolore, morte e miseria o è l’alienazione dell’uomo la causa della sua sofferenza? Del resto si parla di Fin de partie di Beckett e diversamente non potrebbe essere. Quel teatro dell’assurdo, dove le unità aristoteliche si sgretolano sotto il peso di un costrutto drammaturgico che prescinde ogni principio di articolazione temporale e logica della narrazione, appare come un labirinto soffocante impossibile da valicare. Nulla sembrerebbe poter essere aggiunto a tale capolavoro eppure György Kurtág, all’alba dei suoi novantadue anni e dopo una gestazione duratane otto, porta a compimento la sua prima opera, in scena al Teatro Alla Scala di Milano, mettendo in musica il lavoro del drammaturgo irlandese.
Strutturata in quattrordici episodi, singolarmente numerati e intitolati, quasi fossero quadri isolati che si susseguono senza linearità o un’ulteriore metafora di quella desolante solitudine in cui versano i quattro personaggi, Fin de partie di Kurtág mutua il libretto direttamente dal testo originale di Beckett (una parte, in realtà) a cui aggiunge solo la poesia Roundelay, ancora dell’autore, nel prologo e numerose didascalie per precisare indicazioni sceniche e interpretative. Ed è proprio intorno al testo che Kurtág tesse la trama del suo discorso musicale, impulsivo, frammentario, aforistico, costruito con pattern melodici, ritmici e timbrici (il vasto organico prevede numerose tastiere, percussioni e strumenti di forte connotazione popolare) che ricorrono e si evolvono senza mai perdere di vista il materiale emozionale. Ma a differenza di Verdi, ad esempio, che nella musica scolpiva la parola scenica per fissare una momento, un carattere, un’intenzione, nella scrittura di Kurtág la musica diviene l’estensione della parola stessa, un residuo o un preambolo di un’espressione, un rafforzativo, intrisa di emotività e significato, modellata proprio a partire dall’analisi fonetica del testo con scioglimenti vocali scarni che richiedono sbadigli, ululati ed altri effetti vocali, il tutto declinato all’insegna del tragico, dell’onirico e del grottesco. Lontano da ogni elucubrazione intellettuale lo stile di Kurtág sembra dunque incontrare lo spirito del teatro beckettiano, tuttavia rimane qualche perplessità sull’assoluta efficacia di tale soluzione perché la fluidità dell’esposizione rischia di risultare, specie nei monologhi, appesantita da tanta enfatizzazione, rinunciando a volte al mordente che avrebbe conferito all’opera una caratura, seppur velatamente, più sarcastica.
A corroborare la generale inquietudine interviene l’allestimento firmato da Pierre Audi con l’aiuto del drammaturgo Klaus Bertisch, coprodotto con la Dutch National Opera di Amsterdam. Immersa in un’atmosfera lugubre e asfissiante, la casa-bunker dalle pareti metalliche – Christof Hetzer si occupa di scenografie e costumi – ammicca a quella lettura che contestualizza il lavoro di Beckett in uno scenario post-bellico. In questa tomba sulfurea e claustrofobica, mostrata con angolazioni diverse di quadro in quadro, i quattro personaggi vivono la propria angoscia esistenziale, apparentemente senza alcuna possibilità di riscatto o redenzione. E altrettanto metalliche sono le interazioni tra i soggetti, animate solo da una macabra ironia che alla fine risulta essere l’unico combustibile a tenere accesa la fiammella della vita. I movimenti scenici, ossessivi, violenti, ripetitivi, sono curati nei minimi particolari, così come le tenebrose luci di Urs Schönebaum.
Markus Stenz dirige i complessi scaligeri con estrema perizia teatrale e asseconda le richieste di una scrittura ricca di indicazioni ritmiche e dinamiche con sonorità nitide e taglienti. Il parterre di protagonisti eccelle più per capacita attoriali che canore, sebbene risulti difficile inquadrare oggettivamente gli artisti in una dimensione musicale così rarefatta. Il basso Frode Olsen ammette non poche difficoltà nella tessitura grave e mostra una linea vocale laboriosa e disomogenea, ma affronta Hamm con una magnetica carica attoriale. Leigh Melrose, Clov, ha in dote invece una voce più composta e meglio gestita mentre passa piuttosto inosservata Hilary Summers nei panni di Nell. Leonardo Cortellazzi, Nagg, ha un timbro luminoso e sfoggia un’emissione ben controllata.
Grande affluenza e applausi convinti, per tutti, in conclusione dello spettacolo. Kurtág avrà vinto la sua partita?
foto Ruth Waltz