Il volo del gabbiano
di Luigi Raso
Affascina il dramma rarefatto e claustrofobico di Kát'a Kabanová di Janáček nella lettura di Juraj Valčuha e Willy Decker al Teatro di San Carlo.
NAPOLI, 18 dicembre 2018 - Il dramma di Katerina, detta Kát'a è racchiuso all’interno di una claustrofobica scena delimitata da tre pareti e un opprimente soffitto. Il grigio è il colore dominante. A volte i muri della stanza/scena, il carcere senza sbarre nel quale è rinchiusa Kát'a, si aprono e lasciano intravedere uno squarcio di illusoria libertà, un gabbiano.
Pochi gli elementi dello spettacolo: una chiave, qualche sedia, la presenza costante di gabbiani, ombre, distanze incolmabili tra i personaggi; Kat’a è una donna alla quale un dispotico mondo matriarcale ha tarpato le ali; e il volo degli uccelli diventa la metafora del suo sogno di evasione.
Kát'a Kabanová di Leoš Janáček torna al San Carlo dopo cinquant’anni in una produzione con la regia di Willy Decker, ripresa da Rebekka Stanzel, scene e costumi di Wolfgang Gussmann, luci di Hans Toelstedee drammaturgia di Klaus Bertisch: uno spettacolo che coniuga essenzialità, efficacia e teatralità come non frequentemente accade. Nella sua asciuttezza e nella cura della recitazione, la regia conferisce poesia alla tragica vicenda di Katerina, evidenziando la sua estraneità rispetto al mondo immerso nel grigio delle grezze pareti e nel nero omologante dei costumi. Un universo senza colori, limitato al bianco, al nero e alla loro fusione, nel quale appaiono inquietanti le ombre dei protagonisti e, soprattutto, della dispotica Marfa Kabanová.
Sin dall’adagio del preludio al primo atto si fronteggiano in scena le due figure chiave del dramma: Katerina e la terribile suocera Mafra. Distanti da loro, si contrappongono nella loro fisicità e nelle ombre; Tichon, succubo della madre, inizia a recitare il suo ruolo di marito senza volontà. Fa da sfondo al dramma un’umanità vestita di nero, priva di identità, relitta e sfuggente, quanto pungente nel condannare.
L’impianto scenico si dilata nel tragico finale, quando attraverso il suicidio Katerina potrà finalmente essere libera come i suoi amati uccelli: il pavimento si alza, il soffitto che l’ha oppressa si ritira; un salto nel Volga ed è la finis comoediae. Lo sfondo diventa azzurro. Non si può non provare compassione per Katerina, perdonare il suo peccato, l’adulterio.
A un allestimento immerso in un’atmosfera plumbea si affianca una lettura musicale elegiaca, dal colore cinereo.
L’originale linguaggio melodico e musicale, mutuato dalla lingua parlata e dal patrimonio musicale popolare, è affrontato con la consueta precisione e scavo timbrico da Juraj Valčuha alla testa dell’orchestra del San Carlo. I volumi sono calibrati alla perfezione, gli squarci lirici - non frequenti - della partitura emergono illuminati dalla giusta enfasi all’interno di una cornice musicale che appare l'equivalente sonoro della visione registica.
Valčuha, nel proseguire il suo approfondimento delle letture musicali novecentesche, per Kát'a Kabanová opta per un alleggerimento sonoro rispetto all’orgia timbrica, armonica e ritmica della Lady Macbeth di Šostakovič affrontata lo scorso aprile [leggi la recensione]: la sua orchestra, precisa e compatta, ora esala sonorità scure ma non grevi, all’occorrenza rarefatte, sotto le quali si avverte la ricorrente e straniante pulsazione ritmica identificativa della perentorietà di Mafra.
Il coro, diretto da Gea Garatti Ansini, è a pieno titolo compartecipe dell’ottima riuscita musicale dello spettacolo, ben riproponendo fuori scena le tinte delle sonorità orchestrali; preciso e integrato nel disegno registico quando è sulla scena a complemento e commento della trama.
Pavla Vykopalová nel title role è brava nel delineare una donna sognante e poi distrutta dal rimorso per l’adulterio commesso: la vocalità è complessivamente ben organizzata, a eccezione di qualche acuto eccessivamente stridulo.
Convincente scenicamente e vocalmente il Tichon di Ludovit Ludha: voce dal timbro vocale gradevole, di grande volume, a proprio agio nelle originali e trattenute melodie del linguaggio musicale di Janáček.
La Marfa Kabanová di Gabriela Beňačková ha personalità scenica notevole, la quale supplisce all’ormai logora organizzazione vocale e all’inevitabile inasprimento del timbro. Un’ottima prova da attrice: terribile e temibile burattinaia del dramma, carnefice dell’inetto figlio Tichon e della annoiata nuora Katerina.
Eccellenti le prove di Sergej Kovnir e di Lena Belkina che interpretano Savël Dikoj e Varvara, la coppia di amanti che fa da pendant a Kat’a e Boris, interpretato da un convincente e vocalmente stentoreo Misha Didyk.
Bene nelle parti secondarie il Vana Kudrjás di Paolo Antognetti, il Kuligin di Donato Di Gioia, la Glasa di Sofya Tumanyan, la Feklusa di Francesca Russo Ermolli.
Una sala, purtroppo desolatamente vuota nei palchi, tributa un successo convinto a uno spettacolo raffinato e tra i più interessanti della stagione da poco inaugurata con Così fan tutte [leggi la recensione].