Lenny e le sue sinfonie (I)
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, per festeggiare il centenario dalla nascita di Leonard Bernstein (1918-1990), propone il ciclo integrale delle sue tre sinfonie, dirette dall’inossidabile Antonio Pappano. La prima tranche prevede la Sinfonia n. 1 “Jeremiah” per mezzosoprano e orchestra (con Marie-Nicole Lemieux), Prelude, Fugue and Riffs per clarinetto e jazz ensemble come intermezzo, e la Sinfonia n. 2 “The Age of Anxiety” per pianoforte e orchestra (con Beatrice Rana alla tastiera).
ROMA, 17 febbraio 2018 – L’Accademia di Santa Cecilia dà il suo giusto contributo alle celebrazioni per il centenario dalla nascita di Leonard Bernstein. Come ad inizio anno era stato fatto per Čajkovskij, ora assistiamo all’integrale delle sinfonie dell’enfant prodige dei compositori americani: tre sinfonie spalmate in due cicli di concerti, con il brahmsiano Concerto per violino ad accompagnare la Terza (nel concerto venturo)e le prime due assieme (in quello odierno).
Per questo primo ciclo, il Maestro Antonio Pappano dirige le prime due sinfonie intervallate da una vera chicca: Prelude, Fugue and Riffs. L’orchestra dell’Accademia ha, al solito, quel suono terso, ma intenso e potente, che la rende inconfondibile e fantastica. Pappano inizia con un cupo crescendo la Sinfonia n. 1 “Jeremiah”, conducendo la Profezia (I) con quel senso di ineluttabilità, di fatalità che Bernstein affida alle acute e penetranti sferzate melodiche degli archi, dove si intromettono le compagini pesanti dell’orchestra a creare un senso di cupa paura: ottima, ancora, la cupezza silenziosa con cui si chiude il pezzo. Con un coup de théâtre ben caro a Lenny Bernstein, Profanazione (II), invece, è pervasa da quell’ironia ‘šostakovičana’ che ritroviamo in tanta musica del ‘900: Pappano esalta tanto quest’ironia sinistra, sardonica, quanto i guizzi melodici di matrice ebraica, rimpastati di reminiscenze jazzistiche, curando i volumi e la caotica confusione di questa scena che evoca la profanazione del tempio salomonico. La matrice ebraica (precisamente chassidica) della cultura famigliare di Bernstein è palese nell’ultimo movimento, Lamentazione (III): un’antologia dal biblico Libro di Geremia carica di dolore e disperazione è il testo ebraico per la voce di mezzosoprano e costituisce il nucleo da cui nacque l’intera idea sinfonica. Difesa orgogliosa (ma non cieca) delle origini ebraiche contro l’antisemitismo dilagante del tempo; sconfessione degli atroci orrori della Seconda Guerra Mondiale sono i temi portanti di questo pezzo. Pappano dirige il tutto con grande attenzione all’elemento intimamente ‘trenodico’ del brano; Marie-Nicole Lemieux è profondamente intensa nel fraseggio, che sa porgere con potenza ove il testo si leva contro la fatalità del male nel mondo. Gli applausi sono meritatissimi e la Lemieux fa scendere qualche lacrima per la bravura e la profondità della performance.
A chiudere il primo tempo v’è l’esecuzione di Prelude, Fugue and Riffs per clarinetto e jazz ensemble. Bernstein si laureò con una tesi che sosteneva come la musica autenticamente americana fosse da ricercare nella tradizione afro e nel jazz, non nello stile che Dvořak aveva dispiegato nella Sinfonia “Dal Nuovo Mondo” – quel Dvořak che fu l’europeo chiamato a ‘inventare’ uno stile colto americano. È per questo che Lenny amava molto il jazz, che impastò (puro o diluito) in molte sue composizione: in Prelude, Fugue and Riffs (dove già dal titolo emerge il profondo senso ironico del compositore) il ritmo trascinante del jazz conquista tutti. E i complessi dell’Accademia hanno fatto stravedere sotto la bacchetta di Pappano: il solista Alessandro Carbonare ci ha regalato momenti fantastici, con quella brillantezza precipuamente gershwiniana che non manca anche nel suo finale bis, una rapsodia di impressionante virtuosismo.
Dopo la pausa, Pappano attacca “The Age of Anxiety”, la seconda fatica sinfonica di Lenny. Tratto dal celebre poema di W. H. Auden, è una sinfonia che narra (come il poema) le inquietudini di alcuni avventori ad un bar e che rende palpabile parola le atmosfere surreali delle tele di Hopper. È una sinfonia con un massiccio uso del pianoforte, la cui parte è oggi eseguita da Beatrice Rana, oramai ben nota al pubblico romano. Dalle nebbie sonore dei legni in apertura (molto stravinskiane) Pappano sa trarre quel senso di accidiosa angoscia tipico dell’uomo contemporaneo e della sua rappresentazione artistico/letteraria. Bernstein decise di inserire, dopo la sezione prologica, quattordici variazioni dai profondi significati (ove il kabalismo chassidico la fa da padrone): è qui che il pianoforte doveva dar sfoggio delle sue grandissime potenzialità espressive. La Rana e Pappano, in perfetta intesa, danno vita a ogni sfumatura di una musica altamente simbolica, oscillante fra la più intima espressione e il dolore lancinante di una generazione intera. Il finale – che tradisce Auden e palesa l’afflato palingenetico della religiosità di Bernstein – è di intensa solarità, di positiva speranza, alla maniera di Lenny. Finale che non si ascoltava all’Accademia dal 1986, quando fu proprio Bernstein a dirigere uno dei suoi capolavori: alla tastiera v’era un giovanissimo Krystian Zimerman.
foto Musacchio e Ianniello