Chailly alla Scala, fulminante Mahler
di Francesco Lora
Orchestra, coro e coro di voci bianche del Teatro alla Scala in stato di grazia ormai inscalfibile: l’esecuzione della Sinfonia n. 3 sotto la direzione di Riccardo Chailly – una lettura di riferimento, che istruisce circa la partitura – diviene riconferma di quanto la prima istituzione musicale italiana si imponga oggi anche attraverso la propria stagione concertistica ufficiale, da tempo rimasta in ombra.
MILANO, 27 febbraio 2018 – Al Teatro alla Scala la stagione d’opera e balletto, la rassegna di recital di canto, le teorie di concerti straordinari e benefici, l’ospitalità data alla Filarmonica scaligera e a istituzioni musicali italiane sono così tracimanti di proposte da lasciare quasi intimidita la stagione sinfonica ufficiale. Da sempre, o almeno da molto tempo. Anche nel cartellone 2017/18, a ben vedere, i programmi presentati sono otto soltanto e per non più di ventiquattro date complessive. La qualità degli stessi concerti, per contro, è di recente divampata a tal punto da rendere di precetto ogni esecuzione.
Due le ragioni. La prima: assai più sotto la sovrintendenza di Alexander Pereira che sotto quella di Stéphane Lissner, l’orchestra della Scala, e in seconda istanza il coro, lavorano a ritmi frenetici passando da una bacchetta d’oro all’altra, ossia quelle di Riccardo Chailly, Myung-Whun Chung, Daniele Gatti e Bernard Haitink tra gli altri, senza dimenticare i due più nobili rampolli di scuola italiana e tedesca, Michele Mariotti e Cornelius Meister; è una cura intensiva cui corrisponde la trasfigurazione poetica e tecnica, tanto più che ciascuno dei direttori menzionati dedica alle maestranze scaligere il senso di appartenenza e l’entusiasmo amichevole non altrettanto emersi negli anni di Daniel Barenboim (ruolo a Milano, cuore a Berlino). La seconda ragione: la direzione artistica di Pereira e quella musicale di Chailly, congiunte, hanno tolto la stagione sinfonica allo stato di contenitore indiscriminato, e le hanno impresso percorsi coerenti, ambiziosi, pregiati, nei quali è affermata ora l’irripetibile idiomaticità della Scala, ora la sua vocazione internazionale.
Del primo caso è esempio la recente esecuzione della simbolica, rara, istruttiva Messa per Rossini, che in uno sol tempo ha omaggiato il Pesarese nel 150° anniversario della morte, ha resuscitato con mezzi sontuosi una partitura negletta e relegata ad aneddoto, infine ha fatto luce sullo stato della musica italiana nella tabula rasa fatta da Verdi fino alla resistenza in repertorio di Boito e Ponchielli [leggi la recensione]. Del secondo caso richiamato – la vocazione internazionale della prima istituzione musicale italiana – è invece esempio l’esecuzione di ben tre sinfonie di Gustav Mahler in altrettanti degli otto programmi totali: la Seconda è stata diretta da Gatti nell’ottobre scorso [leggi la recensione] e nel prossimo giugno Herbert Blomstedt dirigerà la Nona; in mezzo, Chailly ha appena deposto la bacchetta sui sei movimenti della colossale Terza, presentata alla Scala il 23, 25 e 27 febbraio, e ne ha proclamata una declinazione interpretativa tanto oggettiva e superba nell’approccio e nell’esito, quanto impensabile, circa le sue risorse, fuori d’Italia e persino nelle roccheforti mahleriane austro-tedesche.
Solo in Italia, e ancor meglio se alla Scala, si potrebbe trovare un suono d’orchestra equilibrato con tanta morbidezza e semplicità all’insegna del canto; né alcuna istituzione estera possiede cori con prestanza timbrica, coloristica, accentuativa e volumetrica pari ai nostrani: se poi la compagine è quella scaligera, strame è fatto e il discorso è chiuso. Formidabile, dunque, la corposa e cangiante seta degli archi, lo scoppio splendido o latrante degli ottoni, l’incedere dei legni senza ombra di calligrafia. Tale da far riscuotere stupito l’ascoltatore l’assolo del corno da postiglione, che dal foyer penetra in sala passando – v’è di che giurarlo – per l’infinito. Traboccante di salute il coro femminile e imperfettibile quello di voci bianche, che del pari conosce e pratica il rigore senza perdere la fresca comunicativa latina. Coturnata e insieme materna Gerhild Romberger, contralto che nell’intonare i versi di Friedrich Nietzsche sa insistere sul ‘profondo’ sette volte invocato e tuttavia conservare l’eleganza retorica e l’ortodossia canora.
Degna di reverente soggezione la concertazione di Riccardo Chailly, mahleriano di razza che mai cessa di studiare e anteporre la verità del testo alla comodità della tradizione, sì da tradurre in musica anche il lungo silenzio tra i due primi tempi: una lettura che ricorre alla schiettezza dei colori primarii, in barba a ogni estetizzazione, salvo poi scioglierli in tante mezzetinte da rendere ubriaco l’ascoltatore; una lettura di tale chiarezza espositiva da spiegare come meglio non si potrebbe l’ethos della composizione e le sue strutture (nel gigantesco primo movimento, la forma-sonata balena all’orecchio del neofita con la stessa evidenza che si ritroverebbe in una sonatina di Muzio Clementi: prodezza). È in serate come queste che si impara ad amare una partitura: sospirando il momento – arriverà mai più? – d’ascoltarla come la sera del colpo di fulmine.