La purezza del Bach di Koopman
di Alberto Spano
Il Bach limpido e profondo di Ton Koopman conquista, con l'intelligenza del suo scavo filologico, il pubblico del Bologna Festival.
BOLOGNA, 28 marzo 2018 – Ton Koopman aveva già inciso in studio la Johannes-Passion di Bach coi suoi complessi olandesi nel 1993 per la Erato e dal vivo con i complessi tedeschi della Radio Bavarese il 26 febbraio 2010 per l'etichetta Rapidshare. E quindi già si conosceva il grado di comprensione del grande musicista oggi settantatreenne verso il grande capolavoro bachiano. Ci si poteva dunque attendere qualcosa di quel che si è udito il 28 marzo al Teatro Manzoni per l'inaugurazione del Bologna Festival 2018, anche perché il Bach “sacro” di Koopman discende dritto per li rami da Bach del suo grande maestro, Gustav Leonhardt, che anche nelle cantate e nelle passioni aveva fatto uno storico lavoro di pulizia e di ritorno alle origini verso il suono vero, o plausibilmente vero a quello udito il Venerdì Santo a Lipsia nella Chiesa di San Tommaso il 7 aprile del 1724, quando la Passione Secondo Giovanni fu eseguita per la prima volta. Ma non si poteva certo immaginare lo straordinario esito della serata, dovuto indubbiamente a un evidente stato di grazia di Koopman, complice la particolare acustica estremamente analitica del Teatro Manzoni, sempre abbastanza problematica nel caso di grandi complessi corali e sinfonici per una certa tendenza a gonfiare il suono di legni e ottoni e a mortificare quello degli archi. Problema meno stringente nel caso di complessi da camera o di organici ridotti. Pochi musicisti si sanno adattare alla strana acustica della Sala Ottorino Respighi del Teatro Manzoni, e spesso anche pochi solisti. Nel caso poi in cui i musicisti usino strumenti originali o loro copie utilizzando prassi esecutive storicamente informate, spesso i guai si moltiplicano. Non è stato il caso di Koopman che, grazie al suo formidabile istinto musicale ha saputo dosare perfettamente tempi rapidi e sonorità levigate raggiungendo vertici assoluti. Il problema della prassi: i suoi eccezionali strumentisti, per esempio, la applicano con estrema cura, ma mai con esasperazione. Questo per dire che il risultato sonoro è sempre piacevole e rilassante, con una cura delle dinamiche che lascia quasi sempre sbalorditi: la conquista, insomma, di un suono bachiano assoluto, dotato di una eccezionale trasparenza e di una naturale ariosità e freschezza. Ma con Koopman è la scelta dei tempi rapidi che lascia subito sconcertato l'ascoltatore, al quale viene quasi naturale chiedersi dopo le prime note: “quello che sto ascoltando è la stessa musica di certi dischi di Karl Richter o di Karajan che tutti possediamo nelle nostre discoteche? Son proprio le stesse note? Il pensiero va ad esempio alla leggendaria registrazione di un riconosciuto direttore bachiano del passato, il tedesco Karl Forster, che nel 1961 effettuò a Berlino una grandiosa registrazione della Johannes-Passion con protagonisti nientemeno che Fritz Wunderlich, Dietrich Fischer-Dieskau, Elisabeth Grummer, Christa Ludwig, Josef Traxel e Lisa Otto. Un ascolto comparato fra il Bach opulento di Forster e quello del Koopman attuale farebbe giungere alla paradossale conclusione che no, non stanno eseguendo lo stesso autore e lo stesso testo.
Dopo cinquant'anni però anche il gusto del pubblico si è evoluto, grazie all'apporto dello studio e dell'applicazione della filologia all'interpretazione musicale, e certamente anche il pubblico generalista del Bologna Festival è in grado di apprezzare la limpida lezione di Ton Koopman, senza rimpiangere le sonorità eccessive e le sottolineature drammatiche di quel Bach che andava di moda allora. Perché ascoltando il Bach del Ton Koopman di oggi, viene veramente in mente il concetto di “purezza” musicale. C'è stato un tempo in cui anche Koopman era preso da una certa qual maniera da barocchista spinto, allorché la sua sfida filologica conteneva un aspetto dimostrativo che spesso rasentava il ridicolo, se non il grottesco. Oggi tutto ciò è completamente sparito: i tempi sono rapidi, a volte rapidissimi, e il passo è quindi sempre molto sostenuto. Ma il virtuosismo strumentale dei formidabili esecutori dell'Amsterdam Baroque Orchestra & Choir è arrivato a un tale grado di perfezione che anche la rapidità non appare più un tratto fondamentale, ma solamente un'esigenza fraseologica impellente che si traduce in urgenza drammatica inesorabile. Con tempi così veloci anche le orchestre più blasonate conoscerebbero qualche problema d'assieme o di raccordo fra solisti e coro. E invece il passo rapido è quasi connaturato nel fraseggio di orchestra e coro, con momenti di autentico straniamento.
Sul fronte dei solisti di canto, stante questa impostazione di fondo, non si immaginerebbero interpreti migliori di quelli ascoltati l'altra sera, a cominciare dalla maiuscola prova del tenore Tilman Lichdi nei panni dell'Evangelista: voce chiara la sua, pronuncia perfetta, stile irreprensibile. Così pure il basso Klaus Mertens e il controtenore Maarten Engeltjes erano perfettamente integrati nel disegno barocco generale impresso da Koopman. Anche la voce più lirica e certamente meno fissa del soprano Yetzabel Arias Fernandez risultava gradevole e adatta a esprimere in sommo grado i sentimenti di stupore e di commozione della poderosa partitura. Ton Koopman da parte sua dipanava l'immenso meccanismo con gesto libero ma pregnante, sempre vigile e aereo, con interventi illuminanti alla tastiera dell'organo positivo da cui tutto dirigeva: son bastati un paio di sopraffini abbellimenti alle poche note scritte, un guizzo improvviso, un rubato rapinoso per gettare una luce di soave beatitudine sonora su tutta l'opera, con un gusto barocco di meravigliosa perfezione. L'insieme di tutti questi elementi restituiva una visione sempre serena e quasi stupefatta del dramma della passione giovannesca, al punto che anche le pause, i silenzi e le piccole attese contribuivano a drammatizzare il capolavoro, con un mirabile senso di teatralità e di intima comprensione della morte di Cristo in croce.