L’eleganza di Mozart
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia propone, per la stagione cameristica, un concerto monografico su Wolfgang Amadeus Mozart, in particolare su opere appartenenti alla prima produzione del salisburghese. Il programma è diretto dal primo violoncello Luigi Piovano e vede la partecipazione della pianista Ingrid Jacoby. Si eseguono: la Sinfonia n. 1 in mi bemolle maggiore K. 16; il Concerto n. 12 in la maggiore per pianoforte e orchestra K. 414; il Concerto n. 9 in mi bemolle maggiore ‘Jeunehomme’ per pianoforte e orchestra K. 271.
ROMA, 18 aprile 2017 – La notevole qualità dei complessi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia si vede anche dalle carriere dei suoi singoli membri, come, in questo caso, Luigi Piovano, che della maggior orchestra romana è primo violoncello. Piovano, infatti, è impegnato anche sul versante della direzione d’orchestra, con diverse collaborazioni di rilievo all’attivo. Nello scorso concerto dei complessi cameristici dell’Accademia s’è cimentato, ancora una volta, nelle vesti di direttore, affrontando un concerto monografico su Wolfgang Amadeus Mozart.
La Prima sinfonia delle quarantuno del catalogo del salisburghese è una rarità da ascoltare in sala da concerto. Fortemente influenzata dal sinfonista di grido della Londra del tempo, il figlio di Bach, Johann Christian, la Prima ha un frizzo e una carica vitale prettamente infantile (Mozart aveva nove anni quando la scrisse!), ma anche una ricerca di studio e sperimentalismo notevoli, come l’Andante (II), le cui qualità ‘drammatiche’ sono state riconosciute da tempo. Piovano fa bene il mestiere: la sinfonia è letta con buona freschezza, forse non sfruttandone tutto il potenziale in ogni battuta, ma tant’è, c’è naturalezza e brio, appunto (il Presto finale l’ha testimoniato). Dopo la Prima, Ingrid Jacoby fa il suo ingresso: pianista solida, la Jacoby (americana, di nobili origini chiaramente teutoniche) ha spaziato durante la sua carriera in un ampio repertorio, che ha avuto Mozart, però, sempre come centro e autore d’elezione – è noto che fu scelta da Sir Marriner per l’integrale dei concerti per pianoforte di Mozart, ciclo interrotto per la morte del direttore. Nel primo tempo, la Jacoby esegue il Concerto n. 12, uno di quelli giovanili, per così dire, tra i molti scritti per catturare le attenzioni dell’esigente pubblico viennese; concerto cui si attaglia bene la ricerca di un gusto brillante e, almeno all’apparenza, semplice, cui Mozart dedicò gran parte della sua idea (platonica, ma con lui reale) della perfezione della composizione. Qualcosa, però, non va: non so se sia stata colpa del pianoforte (che viene riaccordato nell’intervallo, infatti), ma il suono sembra avere qualcosa che non va e la Jacoby, pur eseguendo tecnicamente bene, appare semplicemente incolore e non riesce a strappare un applauso di cuore. Si avverte che non tutto fila liscio, magari talvolta impercettibilmente, ma si avverte: questi brani, per loro natura, non lasciano spazio a imperfezioni di alcun tipo, pena la perdita di colore, appunto, imperniati come sono nella brillantezza di uno stile puramente galante. Comunque, la Jacoby fa onorevolmente il suo mestiere, peccando forse talvolta troppo di pedale (nell’Allegro iniziale), ma leggendo la partitura onorevolmente, con un certo qual tocco e, certamente, notevole esperienza mozartiana: l’Andante, con la poetica cadenza, riesce bene, così come il Rondò. Un’esecuzione, per così dire, che ha lasciato cantare la bella linea melodica mozartiana, anche nella sua facies orchestrale, ben eseguita dai complessi. Ma, appunto, manca un non so che.
Certamente va molto meglio nel “Jeunehomme” (n. 9), che occupa il secondo tempo. Lo si avverte fin dall’inconfondibile attacco orchestrale, cui risponde il pianoforte, insolitamente, per riprendere poi poco dopo con un trillo stupendo e l’esposizione del primo tema. La Jacoby è molto più rilassata, tutto scorre meglio, anche l’intesa con l’orchestra e la bacchetta di Piovano. Sentiamo meglio lo sgranarsi delle floride note mozartiane, la brillantezza dei passaggi, il colore ecc. Nell’Andante si gustano i colori degli affetti tipicamente settecenteschi, arricchiti dei più comuni espedienti retorici, ma usati con infinita bellezza: trilli, volatine, passaggi si alternano con notevole risultato. Anche il più virtuosistico Rondò finale esce con tutte le scale e i passaggi veloci ben eseguiti (ma non si dimentichi la bella oasi di placida melodiosità, dove al pianoforte rispondono i pizzicati degli archi, verso la fine). Ora gli applausi sono assai più sentiti.