Hommage à Rossini
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia dedica un concerto alla commemorazione dei centocinquant’anni dalla morte di Gioachino Rossini. Ivor Bolton dirige la Sinfonia n. 39 in mi bemolle maggiore K 545 di Wolfgang Amadeus Mozart e, appunto, lo Stabat Mater, per soli, coro e orchestra di Rossini. Solisti: Eleonora Buratto, Veronica Simeoni, Paolo Fanale e Roberto Tagliavini. Il concerto è un successo.
ROMA, 28 aprile 2017 – Nell’anno delle celebrazioni per i centocinquant’anni dalla morte del grande Gioachino Rossini, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia non poteva mancare all’appello con un titolo rossiniano, in questi casi, di rito come lo Stabat Mater. Del concerto era stato incaricato il maestro Myung-Whun Chung, che è stato direttore stabile della massima orchestra romana per diversi anni e che l’ha già diretta quattro volte nella partitura, dal 1991 al 2001. Purtroppo, Chung è costretto, per motivi di salute, a rinunciare all’impegno. Sul podio sale, in sua sostituzione, Ivor Bolton, che mancava dai cartelloni dell’Accademia dal 2004. Fortunatamente, il cambio di direttore non ha nociuto alla qualità, notevole, della serata.
Nel primo tempo, Bolton e l’orchestra si cimentano nella Sinfonia n. 39 di Mozart. Gli orchestrali sono in ottima forma, al solito, e Bolton fa vedere le sue doti di consumato mozartiano – visto e considerato che la Trentanove, assieme alle ultime sinfonie, la incise nel 2006 con l’orchestra di Salisburgo, patria del genio austriaco. Di Bolton ho apprezzato la capacità di essere asciutto, ritmicamente e agogicamente incisivo, senza tralasciare la fibra importante e considerevole della partitura orchestrale: la Trentanove, assieme alle ultime due sorelle, costituisce una svolta epocale nella storia del genere sinfonico, come mette bene in evidenza il bel saggio di Mauro Mariani, riproposto per la serata. Per quanto concerne la direzione di Bolton, ho trovato veramente notevole l’attenzione al trapasso ritmico e volumetrico dall’Adagio all’Allegro del I movimento (dove Mozart sperimenta una tecnica cara all’ouverture operistica, come quella del Don Giovanni); Bolton, inoltre, ha curato l’esecuzione orchestrale del ciclico, placidissimo tema dell’Andante, continuamente sfumato nel suo ritorno continuo; ma anche la spigliatezza dell’aggraziato Minuetto, facendolo dialogare bene col viennese Trio in esso contenuto; e, infine, l’energia del turbinio ritmico dell’Allegro finale, che pare quasi un galoppo aristocratico. Bolton e l’orchestra, alla fine, ricevono caldi applausi.
Il secondo tempo costituisce il vero e proprio hommage à Rossini. Lo Stabat, dalla storia compositiva (e non solo) non poco tormentata, è fra le partiture oggi più amate del pesarese, ma che in passato ha fatto discutere più di un critico: una sua supposta ‘profanità’ di fondo minerebbe l’afflato autenticamente religioso del pezzo. Naturalmente, non si può essere più in disaccordo: lo sapeva Heine e lo spiega bene anche Arrigo Quattrocchi, nelle belle pagine dedicate al pezzo nel programma di sala. Coro e orchestra sono schierati. Entrano i solisti e il direttore: tutto è pronto. Ci si deve complimentare con Bolton, anche in questo caso, per la direzione dello Stabat: tiene l’orchestra al volume opportuno; fa cantare le voci; dirige splendidamente il coro. Insomma, lo Stabat è un successo. Vorrei, ancora una volta, inoltre, fare i complimenti allo straordinario coro dell’Accademia: il pathos profuso nell’introduzione; la perfetta intonazione dell’«Eja Mater, fons amoris» (in stile antico, a cappella); il misticheggiante «Quando corpus morietur», che si verticalizza sulle parole «Paradisi gloria», riempiendo il cuore d’emozione (ma che mostra anche il controllo perfetto del pianissimo di cui è in grado l’ensemble corale); o il rutilante «Amen» finale, con la fuga, di incredibile potenza immaginifica; insomma, tutto è sostanzialmente perfetto. Anche il cast dei solisti fa bene. Paolo Fanale, la cui voce si sta, purtroppo, nasalizzando oltre il dovuto, pur rimanendo un po’ indietro nell’emissione, interpreta degnamente la parte del tenore, con un convincente «Cujus animam gementem» – effetti e sfumature ci sono, il re bemolle sovracuto, benché indietreggiato, risulta gradevole. Roberto Tagliavini interpreta come meglio non si potrebbe la parte del basso: una voce potente, cavernosa ma, al contempo, perfettamente ammaestrata, tonda e sonora, legge con emissioni facile e aristocratica la parte. Nello splendido «Pro peccatis suae gentis» si sente tuonare la potenza della voce, come pure carezzare la linea del canto in estetica contemplazione della pietà sul cadavere del Cristo – peccato l’insistente dizione morientum, quando nel testo è moriendo (e in latino l'accusativo sarebbe comunque morientem). Veronica Simeoni si conferma cantante intelligente e raffinata: la sua voce, ancorché non potente, è pastosa, elegante, con un timbro lievemente brunito e il talento di sfumature, con la corda mezzosopranile, tanto nel volume che nel colore: la si è apprezzata soprattutto nella sua cavatina, «Fac ut portem Christi mortem», che è impressionantemente debitrice delle pitture sonore de La donna del lago, dove la linea del canto, il legato, i colori, esaltano la mistica contemplazione del dolore della morte del Cristo. Semplicemente straordinaria Eleonora Buratto, che sorregge la parte sopranile con potenza vocale incredibile: perfetti la gestione dei passaggi, la tecnica e – cosa forse ancor più importante – l’incredibile controllo dei volumi. Così, l’«Inflammatus et accensus» risuona pieno e accorato: non solo la voce svetta sino all’acuto nelle parti di più alta perorazione, ma è capace anche di sfumare nei colori della preghiera («Fac me crucem custodiri»), con impareggiabile padronanza e gusto. La Simeoni e la Buratto danno prova di saper cantare benissimo anche assieme, regalandoci un magnifico «Quis est homo, qui non fleret»: soprattutto il momento in cui le due voci si sovrappongono a raddoppiare la commozione per la morte del Cristo risulta incredibile. Quanto, poi, i quattro interpreti riescano bene assieme lo s’è visto nell’esecuzione del quartetto «Sancta Mater, istud agas».
Gli applausi, alla fine della performance, sono scroscianti e ripagano di un ottimo lavoro e di un’altrettanta eccellente riuscita: Rossini, immagino, ne sarebbe stato contento.
foto Musacchio e Ianniello