I fili rossi di Gioachino
di Francesco Lora
Nel 44° Festival della Valle d’Itria e nel 150° della scomparsa di Rossini, il Cigno di Pesaro non figura con un titolo d’opera ma organizza intorno a sé i numerosi concerti: si ascoltano musiche sue nonché di Bériot, Haydn, Mozart, Müller, Paganini e Tarkmann; si omaggiano l’esempio di Pertusi e la memoria di Zedda; si riscoprono rare parafrasi di pagine note e la superba ma negletta Riconoscenza; si godono protagonisti del mondo musicale come Aleida, Iervolino, Luisi, Pfeffer, Remigio e Revich.
MARTINA FRANCA, 16-20 luglio 2018 – Giulietta e Romeo di Nicola Vaccai, Il trionfo dell’onore di Alessandro Scarlatti e Rinaldo di George Frideric Handel (nella versione impasticciata da Leonardo Leo) sono i titoli operistici rari per statuto – dunque le portate principali – nel cartellone del 44° Festival della Valle d’Itria: inaugurazione il 13 luglio, ultimo sipario il 4 agosto; il lettore ha ancora tempo bastante per ravvedersi e correre alla più raffinata rassegna musicale italiana, con i suoi artisti entusiasti, il suo luogo magnifico e i suoi biglietti economici. Stupirà che nel 150° anniversario della morte di Gioachino Rossini non figuri in programma una sua opera: l’esperienza di Martina Franca ha infatti a suo tempo ispirato Pesaro e il ROF, e più di un titolo rossiniano ha rivisto la luce prima in Puglia che nelle Marche. Eppure il percorso intorno al Cigno di Pesaro è ben presente e ben articolato, sia pure in disparte, nella serie di concerti che fanno da contorno alle rappresentazioni teatrali: con sorprese degne del Valle d’Itria tanto nell’individuazione dei testi quanto in quella degli interpreti.
L’orizzonte è rossiniano fin dal primo concerto nel cortile del Palazzo Ducale, il 16 luglio, e a dispetto del fatto che nemmeno una nota lì eseguita sia di Gioachino. In programma, ecco infatti l’Ouverture della Zauberflöte di Wolfgang Amadè Mozart e la Sinfonia londinese n. 102 di Joseph Haydn, poste a incorniciare tra sé il Concerto per violino e orchestra n. 2 op. 7 (“La campanella”) di Niccolò Paganini: i primi due autori furono per Rossini dichiarati punti di riferimento stilistico, sin dal primo apprendistato, mentre il terzo, suo caro amico e collaboratore, condivise il di lui linguaggio. Per ravvivare il tacito gioco di fili rossi, prologo agli appuntamenti successivi, meglio sarebbe stato rivolgersi a un concertatore più vivido di Michael Halász: divertito, sorridente, innamorato del proprio mestiere, ben disposto al lavoro con i giovani, egli è il medesimo vecchio leone che a Martina Franca ha diretto la storica Norma del 1977 con Grace Bumbry e Lella Cuberli, e che negli anni di politica low cost ha provveduto il catalogo della Naxos con molte incisioni del repertorio classico viennese.
Alla testa dell’Orchestra Accademia Teatro alla Scala, tuttavia, egli lavora più sul suono più che sulla retorica, e acuisce così la pena di uno spazio dall’acustica difficile, nuovo anche per l’esordiente compagine milanese: il suo Mozart e il suo Haydn, in particolare, vedono restaurati gli impassibili turgori in voga mezzo secolo fa e nel presente – età di prassi filologiche e strumenti originali – tacciabili di lettura obsoleta. L’ostacolo non sussiste per quel gran virtuoso che è il violinista russo Yury Revich, ieri bambino prodigio e oggi smaliziato ventiseienne, tuttora poco noto in Italia quando già idolatrato nel contesto mitteleuropeo: l’apparizione martinese fa dunque onore al festival e insieme colma un imbarazzante debito nazionale. “La campanella” di Paganini ne ostenta le specialità tecniche e le attitudini poetiche: suono di ampia portata timbrica; fraseggio deciso, sicuro e virile; severa scuola moscovita alle spalle; poco interesse per prassi esecutive che non siano la sua; astuzia da volpe nel calcolare i luoghi dello sbigottimento del pubblico dando fuoco alle polveri del virtuosismo.
Si allude in particolare ai passi nei quali la mano destra suona con l’arco mentre la sinistra pizzica le corde. La prima cosa è ordinaria. La seconda no: squilibra l’impugnatura dello strumento e costringe dita deboli a operare non vicino al ponticello, dove le corde sono alte, bensì lungo il manico, dove le corde si fanno vicine, basse, praticabili a costo di forza e calli. Manco a dirlo, proprio lì Revich mostra la coda del diavolo e sembra far scoppiare tra le mani il proprio Stradivari (“Principessa Aurora” 1709). Le medesime zampate, ma in scala cameristica, si ascoltano da lui il 18 luglio, nel più raccolto spazio del chiostro di S. Domenico: che il rinvio di due giorni prima fosse diretto a Rossini torna evidente nella proposta delle Mélodies italiennes di Charles-Auguste de Bériot (su temi di Aureliano in Palmira e Armida), di Non più mesta e I palpiti op. 12 e 13 di Paganini (su temi della Cenerentola e di Tancredi), nonché – a chiudere il cerchio – della Élégie di Rossini stesso dedicata proprio a Paganini. L’accompagnamento spetta al pianoforte di Simone Di Crescenzo e l’occasione è un’accademia a dieci mani.
Si tratta infatti della cerimonia ufficiale di consegna del nono Premio “Rodolfo Celletti” al basso Michele Pertusi, lodato per aver realizzato gli auspicii del maestro mediante la caparbia ortodossia tecnica e le scelte di repertorio, tanto estese e curiose quanto attente e sagaci. Da lui, ormai dedito in prevalenza a Giuseppe Verdi, si ascoltano due pagine qui necessariamente rossiniane: il cantabile «All’invito generoso» da Maometto II, con un legato degno di un mantice e un martellato tuttora invidiabile, e «La calunnia è un venticello» dal Barbiere di Siviglia, anteprima della misura arguta pronta da riversare nelle prossimi recite al ROF. Ospite della serata è al suo fianco il soprano leggero Maria Aleida, vetrosetta nel timbro e disomogenea nei registri quando si tratti di intonare – sempre Rossini – pezzi da camera come La pastorelle delle Alpi, la Chanson de Zora e La fioraia fiorentina, ma sorprendentemente lesta a spiccare il volo, con altro piglio, proprietà, virtuosismo e temperamento, quando si tratti di affrontare l’impervia aria della primadonna nell’Aureliano, «Là pugnai; la sorte arrise».
Il quinto paio di mani prestato a Rossini è quello del clarinettista tedesco Nicolai Pfeffer, impegnato a inarcare con vellutata cantabilità la Fantasia op. 27 di Ivan Müller (sulla cavatina «Ecco ridente in cielo» dal Barbiere) come pure a sgranare impossibili notine in una parafrasi di Andreas Tarkmann (sulla cabaletta «Del periglio al fiero aspetto» da Maometto II). Le sue doti, nell’àmbito sia dell’espressivo sia del virtuosistico, si apprezzano meglio nel cortile del Palazzo Ducale, il 20 luglio, durante un concerto di più grandiosa concezione. Si tratta questa volta di celebrare la memoria di Alberto Zedda, padre del festival, mediante più stili di Rossini da lui amato sopra ogni altro. A completamento del prezioso florilegio di parafrasi rossiniane raccolto dal Valle d’Itria, Pfeffer presenta l’Introduzione, tema e variazioni del Pesarese, coevi della Donna del lago (1819) e basati sulla ben nota cabaletta della sortita di Malcom: tanto più illuminante, in un festival di belcanto, per il musicista come per l’ascoltatore, è questo scambio di testi, fraseggi e prospettive, tra scritture e tecniche da una parte vocali, dall’altra strumentali.
Sfarzoso è l’accompagnamento a Pfeffer, sia poiché l’Orchestra Accademia Teatro alla Scala vanta spolvero superiore nel presentarsi al completo di legni e ottoni (contro la timidezza degli archi), sia poiché la concertazione passa a Fabio Luisi, direttore musicale del festival, assai motivato dalla monografia rossiniana (che invero gli calza a pennello). Conferma è data dalla Sinfonia della Gazza ladra e da quella del Guillaume Tell, risvegliate con una maestà di respiro sinfonico tale da inquietare il titanismo di Beethoven e – a dispetto del vento che sempre vi turbina e porta via il suono – da riempire di colori musicali il cortile del palazzo. All’insegna della festa senza limiti è poi l’esecuzione del Gran pezzo concertato a 14 voci dal Viaggio a Reims, dove tra i giovani dell’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” – il pozzo petrolifero sul quale il festival siede – si fanno largo i più rigogliosi mezzi e le più smaglianti esperienze di Carmela Remigio come Madama Cortese, Maria Aleida come Contessa di Folleville, Teresa Iervolino come Marchesa Melibea e Marco Filippo Romano come Don Profondo.
A completamento dello stesso concerto, ecco infine il più bel regalo agli intenditori. Si offre all’ascolto l’imponente cantata La riconoscenza, lavoro di genere pastorale ed encomiastico, composta da Rossini all’apice della propria fama, giusto prima di Zelmira e di lasciare Napoli. È una partitura di cruciale importanza storica, artistica e biografica, nella quale sono schizzate soluzioni poi confermate in Semiramide; ed è una partitura che – quantomeno nella sua prima forma, prima di essere rielaborata nel Vero omaggio – giaceva muta da decenni. Eccellente vi risulta il cimento rossiniano della Remigio nella parte di Argene: in lei si ritrovano insieme il colorito trepidare della pastorella, l’accento scolpito da primadonna, l’insospettato agio nello sgranare semicrome. Favolosa per mordente, velluto e ironia, le è pari la Iervolino come Melania. Sulle uova, malgré soi, David Ferri Durà, cui tocca l’iperurania parte di Fileno, concepita per Giambattista Rubini. Elegante Christian Senn nei più concisi e agevoli interventi di Elpino. Molle nerbo ma buon sangue nella prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza.
foto Fabrizio Sansoni, Marta Massafra, Paolo Conserva