L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Sacro enigma

 di Roberta Pedrotti

La Petite Messe Solennelle chiude con una lettura controversa ma non priva di pregi e stimoli, il Rossini Opera Festival. Appuntamento alla quarantesima edizione, con Semiramide, L'equivoco stravagante e Demetrio e Polibio con interpreti di rilievo e la speranza del ritorno al Palafestival in città.

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PESARO, 23 agosto 2018 - Dalla pura essenzialità della stesura per due pianoforti e harmonium allo sviluppo della versione orchestrale, permane nella Petite Messe Solennelle un carattere enigmatico, sfuggente, come una bellezza perturbante che nasce da significati nascosti e ombre segrete.

“Musique sacré ou sacré musique”, scrive lo stesso Rossini giocando sull'ambiguità dell'aggettivo che in francese può indicare sacralità, consacrazione, ma anche, all'opposto, può tradursi come “benedetto” o “dannato” in senso più o meno sarcastico. Come in latino sacer si può tradurre come sacro, divino, venerando, ma anche maledetto, esecrabile, infame, sembra che nell'ultimo peccato di vecchiaia di Rossini debbano convivere gli opposti, anche se quello del titolo è in realtà un falso ossimoro (la solennità è data non dalle dimensioni, ma dalla struttura, con l'intero Ordinarium missae musicato).

Questa natura enigmatica non si risolve nel dualismo fra la versione da camera e quella sinfonica – dualismo che l'edizione critica di Davide Daolmi ha dimostrato essere ben più sfumato di quanto non si credesse – ma si sviluppa con particolare evidenza nella stesura orchestrale, troppo a lungo considerata solo un semplice ripiego per evitare interventi altrui. Non è così, l'idea di una strumentazione è presente in nuce già nelle prime fasi della stesura e la partitura presenta un carattere ben definito, con la scelta di unire i soli al coro in tutti i numeri, di far suonare l'organo con l'orchestra e non solo nel Prélude religieux sì da conferire, con un organico debitamente contenuto, un preciso colore cameristico a tutta la Messa. Una soluzione suggestiva, ma forse poco pratica – perlomeno nell'impegno richiesto ai solisti – per entrare stabilmente nella prassi esecutiva, che vede ancora vivere la Petite Messe orchestrale nella sua veste assai poco “petite”, in cui l'unione di tutte le voci nelle pagine corali risulterebbe ininfluente e inutilmente faticosa per i quattro soli, in cui l'organo non sarebbe sostegno armonico e timbrico dell'ensemble, ma quasi inudibile nella formazione sinfonica e dunque o si limita al Prélude o sparisce del tutto, tanto più che non tutte le sale ne sono, ahinoi, degnamente dotate. Così l'ultima sacrée fatica rossiniana vive, nella versione orchestrata, in una forma ancora diversa, insieme infedele e legittima, ché si allontana dalla delicatezza del disegno originale, ma appartiene a pieno diritto alla prassi esecutiva che si adatta al luogo e alla situazione della performance. In tale senso parimenti infedele e legittima può essere la strumentazione che Alberto Zedda curò del Prélude religieux con l'argomentazione (non troppo convincente) che Rossini stesso avrebbe potuto realizzarla se avesse avuto a disposizione come noi strumenti in grado di coprire tutta l'estensione del tema della Fuga e la più consistente ragione pratica dell'eseguibilità con ampio organico anche in assenza di un organo all'altezza, senza dover cercare improbabili ripieghi. La proposta della “versione Zedda” a Pesaro ha un valore affettivo innegabile, comporta un'emozione cui non possiamo sottrarci e mantiene idealmente accanto a noi l'indimenticato maestro. Tuttavia resta vivo il desiderio di riascoltare la nuda essenzialità della versione per tre tastiere, di confrontarla con quella orchestrata nelle proporzioni più contenute e negli equilibri timbrici suggeriti dall'edizione critica.

Sul podio, Giacomo Sagripanti sembra meditare su questo punto critico, sulla natura sfuggente della partitura, su una versione più ampia, magniloquente di un'essenza di pura, geometrica poesia. La lettura che ne sortisce appare problematica, combattuta. Non alterna, non diseguale, ma articolata comunque con un fraseggio che non lascia indifferenti, scontornato senza evitare spigoli, quasi, al contrario, cercando una linea più scabra. Sembra quasi si avverta un disagio nella sovrastruttura e una ricerca spasmodica, tormentata dell'essenza del testo, con una tensione continua verso un ideale classico che sfocia in momenti di equilibrio luminoso o si dibatte in moti più ansiosi e, forse, dolorosi. Questa lettura controversa può poggiare sulle basi sicure di un'eccellente orchestra Rai, che ben aderisce e rende al meglio l'articolazione e i rapporti timbrici richiesti da Sagripanti, giustifica con mirabili interventi solistici anche il Prélude nella versione di Zedda (magnetico il suono del clarinetto basso, d'altissimo livello tutto il dialogo fra i fiati). Un po' più tesa la prova del coro del Teatro della Fortuna, sempre valido e ben preparato da Mirca Rosciani, ma talora un po' in debito d'incisività e mordente nell'equilibrio complessivo. Si avverte qui il contrasto fra un'orchestra sinfonica d'ampio respiro, per quanto duttile e capace di leggerezza, e un coro che esprime una vocazione più intima e cameristica.

Le due anime che si dibattono in questa Petite Messe Solennelle si riconoscono anche nelle voci soliste. Carmela Remigio pone su piatto della bilancia da un lato il peso di una carriera intrapresa in giovanissima età, curiosa e onnivora anche a costo di veder il timbro un po' impoverito e l'emissione talora un po' indurita e affaticata, dall'altro il valore di tale e tanta esperienza artistica, che si traduce in una musicalità nitida ed elegante, in un'eloquenza riservata assai confacente a questo linguaggio sacro. Per contro Daniela Barcellona torna a Pesaro con una luminosa morbidezza che pare sempre più proiettata verso tessiture falcon, ma domina sempre la scrittura contraltile in virtù di una classe sopraffina, di una saldezza vocale e di un'intelligenza di fraseggio di franca, coinvolgente intensità. Il suo “Agnus Dei” è il perfetto coronamento non solo della serata, ma dell'intero festival.

Un po' più intimidito sembra in quest'occasione Celso Albelo, che pure vanta tutte le carte in regola per uscire a testa alta dalle insidie del “Domine Deus” e dei numeri d'assieme. Giunto a sostituire il previsto Roberto Tagliavini, il francese Nicolas Courjal si mostra sicuro, ma anche stilisticamente non troppo affine ai colleghi, sia per l'articolazione un po' rigida, sia per l'emissione un tantino macchinosa e metallica nel colore.

Fra gli applausi, in teatro come di fronte alla videoproiezione in Piazza del Popolo, Pesaro dà l'arrivederci al Festival 2019, il quarantesimo, annunciato fra promesse e speranze, prima fra tutti quella sempre più concreta dell'abbandono dell'Adriatic Arena e del ritorno allo storico Palafestival in città. Fra comunicati stampa e dichiarazioni ufficiali, il programma preannuncia Semiramide (Mariotti sul podio, Vick regista, Salome Jicia e Varduhi Abrahamyan protagoniste), L'equivoco stravagante (direttore Rizzi, regia di Leiser e Caurier, Teresa Iervolino come Ernestina), Demetrio e Polibio (ripresa dello spettacolo di Livermore con la direzione di Arrivabeni e Jessica Pratt primadonna), un gala celebrativo per gli otto gloriosi lustri del Rof.

foto Amati Bacciardi


 

 

 
 
 

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