L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Musica da toccare

 di Antonino Trotta

Grande successo per la serata inaugurale del MITO SettembreMusica 2018: Schumann, Čajkovskij e Stravinskij aprono le danze con un concerto dedicato ai Balletti Russi.

Torino, 3 Settembre 2018 – Tanto nell’accezione comune quanto nell’immaginario collettivo la danza si riduce a una macchinale sequenza di movimenti scanditi dall’incedere di una melodia coinvolgente: il ritmo pervade la mente, soggioga e piega l’articolazione del corpo ai dettami della percezione sonora. Chi di noi non si è cimentato almeno una volta nella vita, magari nell’intima solitudine della propria camera, in personalissimi balletti costruiti su brani accattivanti? Non meno fantasiose sono le coreografie cui si assiste durante i concerti. Per direttori, cantanti e soprattutto strumentisti di ogni sorta – pianisti in primis – il corpo è estensione imprescindibile nella pratica esecutiva e il gesto canale dell’intenzione interpretativa. La danza, dunque, non è subordinata alla musica, anzi, essa ne è un riflesso condizionato, è la conseguenza dell’impulso istintivo e impertinente di profanare le leggi fondamentali della fisica per conferire corporalità all’energia in moto, è il tentativo inconscio di dare forma alle onde, di stringere il suono in un abbraccio carnale. Orbita proprio intorno a questo irrazionale dualismo la dodicesima edizione – trentesima se si considera l’antesignano SettembreMusica di cui il presente è evoluzione – del festival MITO SettembreMusica e il Maestro Nicola Campogrande, al terzo anno di direzione artistica, delinea un interessantissimo percorso costellato da ben 125 appuntamenti in 16 giorni per approfondire il viscerale legame tra musica e danza intesa come fine, mezzo e modo di concepire la musica stessa.

Fluttua nell’etere, tra concreta tangibilità e incorporea evanescenza, la trascrizione di Victoria Borisova-Ollas del Träumerei di Schumann (tratto dalle Scene Infantili Op. 15), entrée del concerto inaugurale al Teatro Regio di Torino. Nell’esecuzione del celeberrimo episodio Marin Alsop, alla guida dei complessi della Royal Philharmonic Orchestra, dispiega sonorità vellutate e sinuose tali da impreziosire l’efficace orchestrazione della compositrice russa. A differenza della partitura originale per pianoforte, il tema emerge da una soffusa introduzione e in un gioco di diafane riflessioni vola dal clarinetto al flauto, dai violini primi al violoncello solo, il tutto su un constante manto di inafferrabili arpeggi che accentuano la paradisiaca atmosfera evocata.

È tuttavia il meraviglioso Concerto in re maggiore op. 35 a introdurre il pubblico nel cuore della rassegna dedicata alla danza. Čajkovskij condensa in questo complesso pas de deux tra violino e orchestra le forme e i temi dei suoi celebri opere, pietre miliari nella letteratura ballettistica romantica. Sergej Krylov sostituisce con enorme successo di pubblico l’indisposta Julia Fischer, bloccata da una violenta bronchite. La formazione russa dell’esecutore è lampante, la sua lettura del concerto è ardimentosa, impavida, carica di slanciata passionalità. Il funambolismo tecnico è prepotente nelle vorticose ascese del primo movimento, nei glissando e nei trilli della cadenza o nel tempo serratissimo del Finale, a volte a discapito dell’intonazione, specialmente nella chiusura dell’Allegro Moderato (I movimento). Le sezioni cantabili invece rivelano un languido lirismo e un’attenzione al fraseggio esemplare, come testimonia la raffinatissima esposizione del tema iniziale (davvero splendido il rubato sulla pausa tra i due fa diesis ripetuti). Marin Alsop è una partner precisa, attenta ad assecondare le esigenze dello strumento solista, ritagliando quando opportuno i momenti di esplosione orchestrale. Una torrenziale pioggia di applausi (di un entusiasmo desueto per il pubblico torinese) investe Krylov al termine della prima parte, costringendo il violinista russo a concedere ben due bis: il capriccio no.24 di Paganini e l’Adagio dalla sonata no.1 in sol minore di Bach.

L’oiseau de feu nasce come balletto, ma la sua musica è autoreferenziale. È tutto lì, scritto sul pentagramma, la danza prende vita dagli strumenti. Stravinskij profonde nella partitura un enorme potere narrativo, miscelando gli stilemi della tradizione ballettistica russa, debitori nelle infinite sfumature a Čajkovskij, con i giochi cromatici dal carattere orientale, bozza alla fisionomia dei lavori successivi, intavolando una dialogica musicale tra il mondo umano e fantastico immediata e spontanea. Il gioco di contrasti funziona perfettamente nella concertazione di Marin Alsop, un travolgente crescendo che lascia il pubblico col fiato sospeso fino all’apparizione dei mostri per poi deflagrare nell’elettrizzante danza dei sudditi di Kascej, dove si apprezza finalmente la Royal Philharmonic Orchestra in tutta la sua potenza. La Alsop ha una visione coerente e unitaria dell’opera, lega con eleganti scelte espressive le scene che si succedono e la narrazione procede fluida, senza alcun disorientamento e senza rinunciare al caleidoscopico spettro della timbrica stravinskiana. Dalla mefistofelica introduzione, mesta nella arcate legate e cupe di violoncelli e contrabbassi, si passa all’apparizione dell’uccello di fuoco con dinamiche ampie e agogiche febbrili, con i soli violenti arpeggi dell’arpa a dipingere l’inquietudine di fondo che si attenua nella danza del principe Ivan e delle principesse. È in questa sezione che il materiale melodico svetta nella sua emozionante luminescenza, palesando un colore orchestrale finora palesato solo nel Sogno di Schumann. Al finale ipertrofico corrisponde un applauso di uguale intensità. La brillante ouverture di Candide di Leonard Bernstein, bis concesso come tributo al compositore americano nel centenario della sua nascita, segna la fine e suggella il successo della serata inaugurale.


 

 

 
 
 

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