Turandot oratoriale
di Giuseppe Guggino
Il Teatro Massimo di Palermo inaugura la nuova stagione d’opera con una versione oratoriale dell’estremo capolavoro pucciniano, proposta in una controversa e contestata mise en espace affidata a Fabio Cherstich e al collettivo di artisti russi AES+F.
Palermo, 27 gennaio 2019 - Chiusa la precedente stagione all’insegna del puccinismo di maniera, il Teatro Massimo di Palermo tenta la svolta con il medesimo compositore a inaugurazione della nuova stagione, osando – una volta tanto – una lettura non scontata, anche se con esiti alterni, sia sul piano visivo che musicale. L’operazione culturale, pur interessante nelle intenzioni, fatica però a concretizzarsi, riuscendo parzialmente solamente nell’impostazione di Gabriele Ferro, che della scrittura di Turandot coglie la cifra mittleuropea e le connessioni multiple con le esperienze ritmiche di Janáček e Bartók da un lato e quelle timbriche di un Debussy dall’altro. Rimangono però i problemi, come peraltro nel Tell della precedente stagione, allorquando la prospettiva interpretativa intrigante stenta a trovare la quadra, battuta per battuta, con un’Orchestra pur dagli ottoni in grande spolvero ma alla fine più che perfettibile nel dialogo interno. Che poi il Principe di Persia abbia avuto avversa fortuna lo apprendiamo dal povero (ma sonoro) mandarino di Luciano Roberti con mezza battuta di anticipo, cosa che fa sembrare Puccini più schönberghiano di quanto probabilmente non volesse egli stesso. Nel resto della distribuzione prevalgono le ombre alle luci, giacché i protagonisti Tatiana Melnychenko e Brian Jagde sono rispettivamente una Turandot e un Calaf costantemente concentrati sull’esibizione muscolare, senza la più vaga idea della prosodia italiana. Meglio, ma non molto, vanno le cose con Valeria Sepe, Liù accorta e partecipe ma spesso ripiegata nei suoni flautati un poco avventurosi, Simon Orfila, un Timur un poco defilato, e Vincenzo Taormina, Ping talvolta sopra le righe. Sicché, se in una Turandot ci si ritrova a compiacersi dell’incisività dei secondi tenori Francesco Marsiglia, Manuel Pierattelli (rispettivamente Pang e Pong) e Antonello Ceron, la consolazione è ben magra.
Ma la vera delusione della serata, nonché fonte di qualche contestazione financo all’ultima delle repliche (di cui riferiamo) è lo spettacolo ambizioso, audace e alla fine inconsistente di Fabio Cherstich e del collettivo AES+F. Peccato, perché l’idea di consegnare la favola della principessa di gelo alle mani di un collettivo di artisti contemporanei d’avanguardia sarebbe stata, sulla carta, la premessa giusta per immergersi in un mondo di proiezioni stranianti che ben avrebbero potuto rendere l’incomprensibilità dell’impero di Turandot. Invece l’invasività dei cefalopodi d’animazione, l’estenuante ripetitività di alcune proiezioni, i capocolli affettati, il comico involontario rasentato nel finale con l’inarrestabile imbardata un poco carnascialesca di un pupone in mutande, rivelano un’operazione senz’anima che del discorso teatrale finisce con l’essere più zavorra che moltiplicatore di suggestioni. Se della megalopoli futuribile rimane impressa nella memoria qualche bella prospettiva a volo d’uccello o – più propriamente – di drago-dirigibile con ventre adibito a plancia di comando, della mise en espace di Fabio Cherstich rimane ancor meno, oltre a qualche idea confusa. Figura emergente, al debutto nell’opera “canonica”, l’artista triestino ha alle spalle le iniziative di opera-camion nelle piazze; magari, a furia di voler portare a tutti i costi il teatro fuori dal teatro, si è riusciti fin troppo nell’intento, se per smuovere l’eccellente Coro (istruito da Piero Monti) dagli scranni oratoriali ai due lati della scena s’è dovuta attendere l’iniziativa di Gabriele Ferro agli applausi finali alla ribalta.
foto Franco Lannino e Rosellina Garbo