Equilibri sospesi
di Luigi Raso
Torna sulle tavole del San Carlo il poetico allestimento circense di Daniele Finzi Pasca per l'opera di Leoncavallo, purtroppo non servita altrettanto bene sul versante musicale.
NAPOLI 5 febbraio 2019 - Nel fortunato allestimento firmato da Daniele Finzi Pasca il vero di cui parla Tonio nel Prologo è da individuarsi nel sottile equilibrismo degli acrobati, evocativo di quello della vita; è vero il labile confine tra realtà e finzione, tra aspirazioni e presente, tra immaginazione e delusione. Inutile cercare in questi Pagliacci il benché minimo riferimento a una piazza calabrese in pomeriggio di mezz’agosto: il verismo è lontanissimo da questo spettacolo onirico, costruito sulle contrapposizioni di luci (curate da Daniele Finzi Pasca e Alexis Bowles), aereo come il volteggiare e il danzare degli acrobati secondo le coreografie di Maria Bonzanigo.
Ricche di luci e di colori le scenografie atemporali e sobrie di Hugo Gargiulo: fondali bianchi, rossi e neri che incorniciano i meravigliosi fantasmagorici costumi carnevaleschi del coro dei contadini. Un tripudio di maschere coloratissime e raffinate, sbalzate su fondali illuminati, che crea un effetto visivo esteticamente sorprendente.
Una visione, quella del dramma di Leoncavallo, che potrebbe dirsi felliniana per il costante rimando al mondo del circo, ai clown, al gioco degli acrobati e alle brevi marcette, con grancassa e tromba in palcoscenico che ricorda vagamente la passerella finale di 8 e ½, qui in versione decisamente Technicolor.
Uno spettacolo, pur con molte licenze, bello da vedere, poetico e allegorico.
E così gli uccelli che dovrebbero stridere in cielo diventano acrobati che volteggiano a mezz’aria, le lacrime di disperazione e di delusione di Canio sono così copiose che formano un laghetto sul palcoscenico, l’uxoricidio finale è preceduto dal femminicidio di quattro donne.
Lo spettacolo, nato nel 2011 proprio per il San Carlo e ripreso nel 2014, torna dopo ben otto anni, eppure mantiene intatta, come i suoi colori, la sua originalità; risulta ben innestato qualche numero di arte circense, godibile malgrado la truculenza della vicenda.
Ruggero Leoncavallo, testimone oculare del dramma a Montalfo Uffugo, librettista e compositore dell’opera, appare sul palcoscenico: un’immagine del compositore napoletano è impressa nel velario, che delimita, nel Prologo, la vita dall’arte. In due occasioni si ascolta una rara incisione d’inizio ‘900 di Leoncavallo al pianoforte.
Purtroppo altrettanta originalità latita nella direzione musicale di Philippe Auguin, nel complesso corretta, ma priva di slancio e contrasti nelle dinamiche, a tratti greve nella conduzione e con un fastidioso squilibrio dei pesi sonori tra palcoscenico e buca; troppo frequentemente i cantanti sono stati quasi coperti dall’orchestra. Questa fa bene, con suono curato e potente, così come è ben preparato il Coro affidato alle cure di Gea Garatti Ansini: “voce” compatta, corposa, al netto di qualche sonorità nel reparto femminile più aspra del dovuto.
Il cast vocale, nel suo complesso, non è tra i più esaltanti.
Delude il Canio di Antonello Palombi, troppo spinto, sforzato nella declamazione, dalla linea vocale priva di sfumature, con incertezze d’intonazione nell’arioso "Vesti la giubba". Il timbro vocale di per sé bello, molto brunito, e il volume alquanto potente scontano una organizzazione vocale non ortodossa: troppi suoni aperti, eccessivo ricorso ad effetti veristici, percepibile assenza di canto legato.
Vocalmente corretta la Nedda di Maria Josè Siri, ma troppo poco partecipe e pochissimo passionale: risulta davvero difficile immaginare che sia quella donna piena di vita in un pomeriggio di mezz’agosto e che, soprattutto, sia stata capace di dare all’amante un bacio tra “spasmi ardenti di voluttà”. “Stridon lassù” è cantato molto bene, ma l’abbandono, il vagheggiare un sogno e la libertà non si avvertono. Più spiritosa e meno ingessata quando veste i panni di Colombina durante la commedia.
Lucio Gallo, invece, disegna un Tonio moralmente laido, subdolo, tornito e credibile, epigono di quel concentrato di sottile malvagità che è Jago. Grazie alle sue doti d’attore è molto convincente scenicamente; risolve con sicurezza le difficoltà della parte, nella quale non manca nessuna puntatura di tradizione. Un’interpretazione estremamente valida, quella di Lucio Gallo, benché lo smalto vocale abbia perso un po’ di lucentezza.
L’Arlecchino di Francesco Pittari ha bella voce e canta con gusto la Serenata.
Davide Luciano è un Silvio dalla voce fresca, dal bel timbro e ben proiettata; la linea di canto richiederebbe maggior cesello, laddove la scrittura vocale, strizzando l’occhio alle romanze da salotto e all’operetta, necessita di alleggerimento nell’emissione.
Buoni comprimari Sergio Voccia e Giacomo Mercaldo nelle parti dei due contadini.
Bravissimi gli acrobati della Compagnia Finzi Pasca che hanno saputo creare uno spettacolo nello spettacolo, una cesùra nel fluire musicale, incantando con le loro acrobazie adattate agli spazi del palcoscenico.
La commedia è finita! chiude il sipario e piomba il pubblico sulla scena nella tragedia. Quello in sala, invece, apprezza e applaude - chi più intensamente, chi meno - tutti.
foto Luciano Romano