Il velo di Valčuha
di Roberta Pedrotti
Magnifico concertatore, Juraj Valčuha è l'asso nella manica della ripresa di Salome al Teatro Comunale di Bologna nel collaudato allestimento di Gabriele Lavia
BOLOGNA, 15 febbraio 2019 - Scoprire l'amore è un rischio mortale. C'è una grande, profonda verità nel preziosismo alessandrino dei versi di Wilde tradotti dal francese al tedesco da un'intellettuale sensibile come Hedwig Lachmann: il cesello callimacheo che crea quasi una rete di Leitmotive verbali prima ancora che musicali definisce l'abisso fatale dell'amore immaturo, dell'ansia di possesso e del suo terrore, del desiderio e del rifiuto, della materia e dello spirito. Nulla è univoco, o scontato, nell'esplorazione dell'amore che per conoscere sé stesso si distrugge, che per arrivare alla maturità deve attraversare la morte. Una morte che diventa il surrogato dell'amore, e della quale, dunque, ci si innamora, dondolandosi in un limbo surreale in cui sembra – ma è solo illusione – che si fondano i temi dell'eros e dello spirito, i trilli e le sinuose impennate che caratterizzano Salome, lo slancio turbinoso ma malato del walzer, la solennità spirituale delle risonanze gravi nel tema di Jochanaan. In questo culmine dialettico, e nella fallacia dell'agognata sintesi, si chiude l'intreccio tessuto nella partitura di Strauss da Juraj Valčuha come un ottavo, prezioso velo. Come la lima poetica non è puramente estetizzante, ma fa della forma contenuto, così l'attenzione della bacchetta pone ogni dettaglio nell'ampia prospettiva di una visione d'insieme che sviluppa il suo senso fin dalla prima nota.
Elegantissimo, ma mai solo decadente né tantomeno indolente, Valčuha non lascia mai che l'orchestra, anche nella brutalità, ceda a intemperanze: il suono è tornito nel pianissimo e nel fortissimo. Nessun facile effetto, nessuna perdita di controllo. Salome è un'opera di sottigliezze, in cui nulla si può lasciare al caso, in cui i contrasti si alimentano l'un l'altro bruciando nel profondo, senza gridare, ma pure emergendo prepotenti come l'istinto dionisiaco della danza, cui Valčuha dà forma, forza, incisività, non irrazionale e vuota barbarie. Né cede alla parodia: il quintetto dei Giudei (Gregory Bonfatti, Pietro Picone, Antonio Feltracco, Paolo Antognetti e Abraham Garcia Gonzalez) non diventa mai caricatura, anzi, il concatenarsi delle puntualizzazioni retoriche e teologiche monta in un crescendo implacabile – e razionalmente controllatissimo – che grava con evidenza ancor maggiore sullo stremato, inquieto, angosciato Herodes. A terra, l'inesorato incalzare del dibattito, in cielo l'ombra incombente le cui ali ossessionano il Tetrarca: sembrano due volti complementari dello stesso dramma psicologico che travolge tutti gli attori, con la morte, amata e temuta, unica soluzione all'incapacità di amare e vivere.
La superlativa visione di Valčuha, che porta con sé un'orchestra in stato di grazia, trova una convincente controparte nell'allestimento di Gabriele Lavia, nato a Bologna nel 2010 e riproposto con poche varianti (manca, oggi, la grande lente che amplificava lo sguardo ossessivo di Herodes). Un lavoro di classe, ben curato nella recitazione (la ripresa è a cura di Gianni Marras), chiaro nell'iconografia, con le luci ben calibrate da Daniele Naldi, i costumi eleganti di Andrea Viotti e la scena di Alessandro Camera, un piano sconnesso, come una terra spezzata da profondi e inconfessati movimenti, che emergono come la voce del profeta, la sua stessa colossale testa marmorea. Proprio nella scelta di evitare ogni riferimento necrofilo, astraendone piuttosto il simbolo, si riconosce la cifra dello spettacolo di Lavia, che pure gioca la danza (coreografia di Daniele Palumbo) su fremiti inquieti e repentine timidezze adolescenziali, su un eros acerbo ed esitante. La principessa danza e fugge, correndo per il palco, ma infine forza se stessa offrendo un istante il seno alla carezza del patrigno. Nulla di più, ma assai ben pensato.
Ne trae indubbio vantaggio un cast di per sé non entusiasmante. Ausrine Stundyte ha perfetto physique du rôle, è una Salome dall'aria inquieta e impertinente, una perfetta adolescente, ostinata e piena di dubbi. Fraseggia a dovere, affonda un po' troppo nel grave ma con efficace espressione, tuttavia il finale e i passi più drammatici la trovano stanca e poco incisiva vocalmente. Ha gioco migliore il ben timbrato Jochanaan di Tuomas Pursio, che ha modo di rifarsi dopo un acuto non perfettamente centrato affermandosi come efficace baritono drammatico, sempre ben presente e sonoro nei suoi interventi. Piace poi l'Herodias di Doris Soffel: misuratissima, altera, sprezzante ma peccaminosa, porta bene gli inevitabili segni del tempo sulla voce. Lo stesso non si può dire di Ian Storey, che del suo passato come Tristan e Tannhauser porta in dote l'apprezzabile serietà con cui delinea un Herodes affaticato e mai macchiettistico, ma il suono, piuttosto opaco, tende a perdersi nei momenti concitati, là dove si vorrebbe invece la parola che schiocca nervosa e incisiva. Enrico Casari è ormai lo specialista italiano di Narraboth, felicemente virile nel timbro e nel piglio, e dunque ancor più tragico nel suo soccombere alla passione. Bene anche Silvia Regazzo nel sintetizzare l'ispirazione poetica e la concretezza umana del paggio. Completano il cast Francesco Leone, l'uomo di Cappadocia, Riccardo Fioratti e Stefano Consolini, i Nazareni, Gabriele Ribis e Luca Gallo, i Soldati, e lo Schiavo di Francisco Javier Ariza Garcia.
Alla prima il pubblico applaude convinto ma senza calore travolgente, riservando comunque vivaci approvazioni per protagonista e concertatore. Con una bacchetta di questo valore e uno spettacolo di qualità, siamo certi che nelle repliche il fervore potrà solo aumentare.
foto Andrea Ranzi, Studio Casaluci