Un “pasticcio” per Farinelli
di Francesco Lora
Orfeo di Porpora (e almeno altri cinque compositori) rivive al Festival della Valle d’Itria con il restauro testuale di Giovanni Andrea Sechi, la mise en espace di Massimo Gasparon, la lettura musicale di George Petrou e Armonia Atenea, e l’eccellente interpretazione di Raffaele Pe, Anna Maria Sarra, Rodrigo Sosa Dal Pozzo, Federica Carnevale, Davide Giangregorio e Giuseppina Bridelli.
MARTINA FRANCA, 2 agosto 2019 – Gli ultimi due secoli hanno depositato, sui frutti dell’ingegno, il mito dell’autore noto, unico, divino, geniale. Nel teatro d’opera, però, tra l’autore, il testo poetico-musicale e il pubblico si interpone il passaggio attraverso l’esecutore: ciò basta a mandare molto all’aria. In più, unicità e primato dell’autore sono anacronistici e sbaragliati al cospetto della prassi sei-settecentesca: una grossa percentuale di opere non solo circolava, ma anche nasceva come lavoro collettivo, diretto sì da un autore principale, ma di fatto concepito a più mani anche in absentia, cucendo insieme arie originali o preesistenti, raffazzonando su misura un libretto già collaudato – o anche confezionandone uno nuovo di zecca – e valorizzando le doti dei cantanti scritturati nell’occasione. Non era un processo di basso ripiego: da esso uscivano spesso indiscutibili capolavori e spettacoli memorabili. Un problema nel godere di quei lavori è oggi determinato dalla difficoltà di reperimento e ricostituzione delle fonti: come pietre preziose montate su un cerchio metallico per una specifica circostanza, e poi reincastonate altrove secondo gli usi della gioielleria, finite le recite le partiture stesse erano spesso riutilizzate, smembrate, restituite, dissolte. “Pasticci”, li chiamano: e il Festival della Valle d’Itria ha già giovato alla causa l’anno scorso, quando ha fatto risorgere il Rinaldo di Händel così come andò in scena a Napoli nel 1718, letteralmente reinventato da Leo e da una compagnia di cantanti illustri [leggi le recensioni delle recite e del DVD].
Quest’anno, il Festival ha reinvestito su quell’esperienza felicissima: ed ecco restituito alle scene, per una sola recita il 2 agosto, nel Palazzo Ducale di Martina Franca, l’Orfeo dato a Londra nel 1736. Porpora vi inanellò composizioni proprie nonché di Araja, Giacomelli, Hasse, Veracini e Vinci – una galleria di eroi della scuola napoletana – e accontentò una sensazionale compagnia che comprendeva la Cuzzoni, il Senesino, la Bertolli e Montagnana, capeggiata dal Farinelli nella parte del mitico cantore. Una copia manoscritta della partitura, appartenuta al Principe di Galles, calligrafica ma/dunque piena di incongruenze, era già nota; Giovanni Andrea Sechi – lo stesso musicologo che già aveva minuziosamente riassemblato il Rinaldo napoletano – ha però potuto collazionarla con un altro testimone in una collezione privata, e così emendare errori, colmare lacune e apprezzare varianti, oltre che perfezionare l’identificazione dei coautori (talvolta insospettati: è il caso, clamoroso, di Veracini, il quale era allora a Londra e prese appositamente carta e penna). Nel sospirato spettacolo martinese, la collezione di musiche superbe, imbibite di Illuminismo e bon goût, ha incontrato la favolosa galleria di costumi barocchi ideati da Massimo Gasparon: un persuasivo invito a una filologia non solo dell’ascolto ma anche dello spettacolo, cui Gasparon stesso ha unito la cura della gestualità e l’inserimento nell’astratta cornice scenica pizziana già di Ecuba [leggi la recensione] e del Matrimonio segreto [leggi la recensione].
Duplice il discorso circa la lettura musicale, incardinato su un direttore specialista qual è George Petrou e sulla sua orchestra “antica” Armonia Atenea. La cristallina qualità del suono e la sottile cura del fraseggio sono ideali. Gronda sangue, tuttavia, la quantità di tagli inflitta alla mirabile partitura: è mancata un’ora di musica sulle quattro previste. Quel che è peggio, i tagli hanno colpito (oltre che i recitativi) non arie intere, ma soprattutto loro porzioni interne, sforbiciate in barba all’intoccabile struttura pentapartita dell’aria col da capo nella sua forma matura: si è ascoltato, cioè, un assetto irregolare, incoerente e focomelico, come nel 1736 nessuno si sarebbe sognato di presentare e ammettere. Spiace, anche perché la compagnia di canto è eccellente. Mai si è ascoltato il controtenore Raffaele Pe interpretare una parte più lunga e ardua di quella di Orfeo, e insieme mai lo si è ascoltato più entusiasta e al colmo delle proprie facoltà virtuosistiche e retoriche. Dopo la valida Armida nel Rinaldo del circuito lirico lombardo, anche Anna Maria Sarra, come Euridice, vanta efficacia malgrado le insidie di un ruolo ben più impegnativo. E ancor meglio nella parte, scritta e giocata, sono Rodrigo Sosa Dal Pozzo, come Aristeo, e Federica Carnevale, come Autonoe. Apoteosi nella coppia infernale di Plutone e Proserpina: lui è il basso Davide Giangregorio, dal canto imperioso e smaltato, rara avis nel panorama barocco; lei è Giuseppina Bridelli, intelligente nel porgere fino a inebriare e granita nelle semicrome fino a stordire.
foto Clarissa Lapolla