Il tremendo arcano
Semiramide inaugura il XL Rossini Opera Festival con la direzione di Michele Mariotti e la regia di Graham Vick, coppia collaudata già in allestimenti memorabili. Se, però, la concertazione appare particolarmente ispirata e felice, la messa in scena sembra sopraffatta dalla grandezza del capolavoro e manca la quadratura del cerchio.
PESARO, 11 agosto 2019 - Questo quarantesimo Rof è dedicato alla memoria di Montserrat Caballé, storica interprete della regina babilonese, e di Bruno Cagli, che su Semiramide tenne, nel 2003, una delle sue indimenticabili conferenze. Parlava del carattere ideale di quest'opera, il congedo di Rossini dalle scene italiane e la summa della sua poetica, un monumento che non può essere paragonato a nulla di quanto l'ha preceduto, che sarà punto di riferimento ineludibile per i posteri, ma inimitabile, anche per il suo creare un passato, un canone classico, una pietra angolare nella storia dell'opera. Semiramide è uno dei più grandi capolavori dell'umanità, non solo del melodramma: se ne sta, immensa, con l'Odissea, Amleto, La divina commedia, Faust e forse qualche altro vertice. Chi pensa sia un'esagerazione, aggiunga pure un altro capolavoro al circolo eletto, ma non pensi di escludere Semiramide. Mille e mille pagine si potrebbero scrivere, mille e mille prove e mille recite si potrebbero programmare, senza coglierne che una piccola parte.
Bruno Cagli la definì quasi ineseguibile, opera talmente ideale da risultare insondabile, impenetrabile, inconoscibile in una solo sguardo nella sua totalità. Tale e paradossale è la natura utopistica dell'ultimo capolavoro italiano di Rossini da potersi riconoscere nello studio del testo, disse, più che in quella interpretazione scenica che dovrebbe essere la ragion d'essere d'ogni opera di teatro musicale. Forse per questo, per quel suo essere inarrivabile, perfino al debutto, con i primi interpreti, Semiramide non poté essere eseguita così come era stata concepita nella sua completezza: le parti conservate delle recite veneziane del 1823 testimoniano tanti e tali tagli dal far immaginare che Rossini tendesse veramente all'ideale più che al reale.
Oggi a Pesaro, Semiramide si dà integrale, forse come non mai, di certo come più non si potrebbe, ma la riflessione di Cagli sulla natura utopistica e speculativa dell'opera sembrano echeggiare ancora, in risposta a una locandina che promette quanto di meglio non si potrebbe a sovrintendere alla lettura musicale e teatrale, Michele Mariotti e Graham Vick. Insieme, al Rof, hanno dato vita a un memorabile Guillaume Tell, ma sono stati anche artefici, a Bologna, della La bohème “del millennio”; una coppia perfetta, perfettamente affiatata, con un direttore nato e cresciuto a Pesaro con Rossini nel sangue e un regista che qui ha inanellato una serie di capolavori: L'inganno felice, Moise et Pharaon, Mosé in Egitto e, appunto, Guillaume Tell.
Nel buio della sala della Vitrifrigo Arena (già Adriatic Arena, già intitolata a Olympe Pélissier: cambiano i nomi, resta la voglia di tornare al Rof tutto in città) Mariotti leva la bacchetta e con l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai ci ricorda ancora una volta la voce di Cagli, a citare la musica come “quell'atmosfera morale che riempie il luogo in cui i personaggi del dramma rappresentano l'azione. Essa esprime il destino che li persegue, la speranza che li anima, l'allegrezza che li circonda, la felicità che li attende, l'abissoin cui sono per cadere.” [parole attribuite al compositore in A. Zanolini, Una passeggiata in compagnia di Rossini, Parigi 1836]. Nulla in scena, nessuna azione, uno schermo nero per sipario, solo la Sinfonia come atmosfera morale e quell'intreccio di destino, speranza, desiderio di felicità e caduta nell'abisso che è Semiramide, già nell'esposizione dei temi, nel loro sviluppo, nei loro rapporti, nel loro riproporsi uguali eppure variati: tutto scorre, nulla si distrugge ma nulla può rimanere eguale a sé stesso. Il fremito iniziale sorge nervoso, più che misterioso, fa capire che sarà un dramma umano, più che sacro, un dramma interiore, traumatico, feroce e implacabile. Ecco, l'atmosfera morale, pietà e terrore, fra abisso e speranza. Michele Mariotti è come galvanizzato di fronte a un monumento che solo nell'integralità ha la sua pienezza, il suo respiro e il suo fluire naturale – ben più agevole di quando ci s'illude d'alleggerirlo con tagli – e questa, così densa e articolata, è una delle sue più belle concertazioni rossiniane, se non in assoluto.
Ma Semiramide è un mistero infinito. “Più se ne cava” direbbe Don Magnifico se la citazione non suonasse irriverente “più ne resta a cavar”, tanto che perfino un regista del calibro di Graham Vick sembra venirne sopraffatto. Quella linea psicanalitica, umana, intima, che fremeva fin dalle prime note della Sinfonia, vibra ancora nell'azione, ma senza compiere quella quadratura del cerchio cui il regista inglese ci aveva abituati, quasi ci trovassimo di fronte a una Pietà Rondanini ancora da levigare, definire e ripulire. Alcuni fili si delineano precisi ed efficaci, ma non tutti. Compare fin dall'inizio, un dettaglio alla volta, un disegno infantile, facilmente attribuibile al piccolo Ninia, testimone della morte del padre, eppure qualcosa non sembra tornare: la figura femminile regge un coltello insanguinato, ma Nino è stato avvelenato. Solo alla fine scopriremo che il principino aveva disegnato e poi rimosso la vendetta che avrebbe compiuto quindici anni dopo: l'omicida è Arsace, la vittima incoronata Semiramide. Il filo si riallaccia: omicidio rituale del sovrano (Il ramo d'oro docet), Edipo, Amleto, passaggio di testimone da madre e figlio con una sorta di identificazione fra i due. Tant'è vero che l'immagine di Arsace in vesti femminili appare naturalissima, essendo la persona, più che il genere sessuale, a interessare, essendo l'ambiguità di genere parte integrante di un'estetica melodrammatica di cui Semiramide è parte integrante, essendo il duetto del primo atto così ben sviluppato su vari livelli di complicità, sensualità, identificazione già quasi filiale fra la regina guerriera e la giovane donna guerriera, per non parlare del piccolo dettaglio di Assur che sembra pronto, dopo l'insulto e l'irrisione, a tentare la carta della seduzione per disfarsi del/della rivale. Si nota anche un'attenzione alle varie fonti storico letterarie relative alla mitica regina babilonese, alla sua sessualità totalmente libera, ma vissuta anche come atto di potere, autoaffermazione, compensazione affettiva e psicologica, ancora alla questione dell'identità sessuale (nelle fonti più antiche, Semiramide si spacciava per il proprio figlio maschio e aveva ideato un indumento intimo che confondesse maschi e femmine).
Tuttavia, qualche tassello non combacia come dovrebbe: se Arsace è una donna, per esempio, ma il suo alter ego infantile è un maschietto e tutti gli oggetti a lui riferiti sono di un bell'azzurro squillante, ci si aspetterebbe che questo contrasto – che pure non crea imbarazzo drammaturgico – venisse sviluppato in qualche modo. Se l'amore di Arsace per Azema è immaturo e adolescenziale ("Il core d'Azema è tutto per me" proclama ingenuamente, ma la teagedia della vita dirà altrimenti e la principessa sarà tosto dimenticata) è plausibile che si disegni un cuore sulla parete, meno che Assur intervenga come un ragazzino bullo a modificarlo. Se la simbologia dell'orsacchiotto del piccolo Ninia è tanto evidente, esporla diventa un superfluo rischio di ridicolo: basta il lettino a ricordarci il trauma infantile, il dolore della maternità perduta. E sì che nell'introduzione, quando lo spegnersi del sacro fuoco appare, agli occhi di Semiramide, come l'ossessione del figlio testimone del regicidio e poi scomparso, avevamo avuto un'immagine dal grande potenziale, che tuttavia non trova un'eco nel corrispettivo sovrannaturale del finale primo, più statico e confusionario di quanto ci saremmo aspettati da un regista solitamente incisivo come Vick.
Sembra, insomma, di inoltrarci in un labirinto di intuizioni e vicoli ciechi, zampate d'artista e cali di tensione, un materiale grezzo, non privo d'interesse nella sua aspirazione a comprendere un materiale tanto immenso, ma ancora da rifinire e riordinare del tutto, come nella gestione del coro (non al suo meglio, quello del Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina).
Se il “tremendo arcano” evocato da Idreno nel recitativo dopo l'Introduzione non si svela – né, forse, sarebbe possibile – bisogna riconoscere a Salome Jicia una tenuta notevole nel ruolo eponimo, dimostrando come la nuova generazione di belcantisti non debba temere né le edizioni integrali né una partecipazione scenica senza riserve, sciorinando colorature in qualunque posizione. La voce, così particolare, scura, quasi graffiante, ben si adatta anche a suggerire una sessualità ferina e onnivora, la ricerca spasmodica di un appagamento e di un'autoaffermazione a placare i propri fantasmi interiori. Va in crescendo, come Arsace, Varduhi Abrahamyan: sconta soprattutto nella cavatina alcune disomogeneità d'emissione, ma è consapevole e musicale anche al di là di qualche impaccio con il testo e sfrutta a dovere le proprie caratteristiche per esprimere la natura sfuggente e ferita del suo personaggio. Nessuna delle due si scolpisce indelebile nella memoria, ma entrambe cercano con determinazione le sfaccettature di Semiramide e Arsace coerenti con lo spettacolo.
Meno interessante l'Assur di Nahuel di Pierro: senz'altro corretto, ma anche privo di quell'autorevolezza, di quel fraseggio magnetico e di quel virtuosismo granitico che dovrebbero inchiodare alla poltrona nella gran scena del secondo atto.
Viceversa, nella parte improba di Idreno, torna a mietere un grande successo Antonino Siragusa, proprio in virtù della confidenza con la scrittura rossiniana e dell'intatta spavalderia in acuto.
Carlo Cigni è un Oroe sonoro ma un po' ruvido, Alessandro Luciano è Mitrane, Martiniana Antoine Azema, Sergey Artamonov un'ombra di Nino molto presente anche sulla scena.
Alla fine, grandi applausi e ovazioni per Mariotti e i solisti, contestazioni e contrasti per la messa in scena (con Vick, Stuart Nunn per scene e costumi, Giuseppe di Iorio per le luci). Più dello sguardo onnipresente di Nino sembra di vedere gli occhi a fessura di Bruno Cagli e di sentirlo ammettere che, forse, sarà impossibile realizzare Semiramide, l'opera ideale; eppure ci si prova, e si continuerà a provare, perché la missione di un Festival - e forse della stessa vita umana - non è tanto la soluzione, quanto la ricerca stessa.
foto Amati Bacciardi