Un nuovo Strauss alla Scala
Il massimo teatro milanese accoglie per la prima volta Die ägyptische Helena, in un garbato nuovo allestimento con regìa di Bechtolf e con la concertazione di un Welser-Möst al proprio meglio. Solida la coppia protagonistica, formata da Merbeth e Schager, cui si affiancano Mei e Hampson.
MILANO, 17 novembre 2019 – Un libretto amabilmente sconclusionato di Hugo von Hofmannsthal, dove il mito omerico e il teatro euripideo sono ulteriormente contaminati con il fantastico di una maga, quattro elfi e un’oracolare conchiglia onnisciente. Una musica che su quella drammaturgia senza bussola – un ritratto della psiche all’indomani della prima guerra mondiale? – vorrebbe giocare di pari ironia, conversando come in Ariadne auf Naxos, e finisce invece col tendere al bombastic. Si parla della Ägyptische Helena: ossia del lavoro di un Richard Strauss a due terzi della propria carriera operistica, battezzato prima a Dresda nel 1928 e poi (revisionato) a Salisburgo nel 1933; ossia di un’opera che, dal secondo dopoguerra a oggi, ha battuto perlopiù l’area mitteleuropea, come chicca per intenditori e collezionisti dell’ascolto; ossia di un titolo che in Italia ha fatto capolino soltanto nel 2001, nell’àmbito della raffinata programmazione del Teatro Lirico di Cagliari, quando si fece addirittura ricorso alla versione di Dresda (rarità nella rarità).
Negli ultimi anni il Teatro alla Scala ha mostrato una speciale attenzione al catalogo straussiano, alla riabilitazione di titoli scivolati fuori da una regolare fruizione nel contesto internazionale nonché alla rappresentazione, urgente appunto poiché intempestiva, di opere mai comparse sulla scena milanese. All’intersezione dei tre indirizzi corrisponde il recente nuovo allestimento della Ägyptische Helena, con le sue sette recite dal 6 al 23 novembre e un pubblico di certo più motivato che numeroso. Regìa di Sven-Eric Bechtolf, scene di Julian Crouch e costumi di Mark Bouman: con i garbati modi drammaturgici di questi tre principali artefici, si finge che l’azione esca in piena concretezza da una grossa radio degli anni Trenta, come una fiaba che non voglia accontentarsi d’essere soltanto letta. Tanto basta perché il pubblico sia persuaso a stare al gioco di un’opera teatralmente bislacca, e perché il discorso musicale proceda nel contempo rispettato, raggiante, ammirato, integro, pronto a entrare nella conoscenza di una nuova platea e più nazionale che cittadina.
Si ascolta uno tra i massimi conseguimenti direttoriali di Franz Welser-Möst, che conduce l’orchestra scaligera a una sorprendente trasfigurazione tecnica: la collezione di timbri, colori, gorghi e scoppi illustra di quale salute goda oggi la compagine, italiana nel cordiale equilibrio fra sezioni ma rombante quanto richiede il repertorio germanico. Solida la coppia dei protagonisti: a un capo v’è la Helena di Ricarda Merbeth, poco incline alla sfumatura tenera, amorosa o seducente, ma smaltata e poderosa nel cavalcare le alluvioni sinfoniche in uscita dal golfo mistico; all’altro capo v’è il Menelas di Andreas Schager, sfiancante parte di Heldentenor affrontata con pragmatismo, schietta simpatia, divertimento. Un canto sfilacciato e affiochito, poco congruo alla gigantesca sala, ma anche un’inossidata classe retorica si trovano negli interpreti che subito seguono in grado: Eva Mei come Aithra e Thomas Hampson come Altair. Impeccabili i caratteristi: Attilio Glaser come Da-ud, Tajda Jovanovič e Valeria Girardello come Serve, Claudia Huckle come Conchiglia.