Le bel indifferent
di Mario Tedeschi Turco
Lascia perplessi, in rapporto anche alla straordinaria fama internazionale, il contegno espressivo di Jan Lisiecki, che nel suo concerto veronese sembra limitarsi a una forbita esibizione di tecnica e virtuosismo.
VERONA, 29 aprile 2019 - Mistero fitto l’assunzione a star internazionale di Jan Lisiecki, forte di un contratto con Deutsche Grammophon e di una cospicua serie di concerti in tutto il mondo. Dopo il concerto sentito al Teatro Ristori (ultimo della stagione degli Amici della Musica di Verona), ci è venuto da domandarci come sia possibile che un pianista di ventiquattro anni non sappia cosa sia il sentimento, per di più eseguendo Schumann, Chopin e Rachmaninov. Fatto sta che nel nutrito, impegnativo e un tantinello bislacco programma eseguito la cifra stilistica del pianismo di Lisiecki ci è parsa per lo più costituita da un impeccabile, virtuosistico, a volte pirotecnico gioco puramente digitale, deprivato in quasi tutte le pagine di musicalità, di close-reading, insomma del “sentimento” di cui sopra, il quale, se è parola di per sé vaga e potenzialmente ambigua, nell’ambito dell’esecuzione musicale, con certi autori e certi brani è altresì un connotato che difficilmente può considerarsi accessorio.
Vediamo qualche dettaglio. I Nachtstücke di Schumann principiano con Lisiecki in modo assurdamente meccanico, la gamma dinamica ristretta dal mezzoforte al forte, privi di risonanza, di pathos, di suggestione. Un approccio oggettivo, “strutturalista”? Forse, ma in una Processione funebre (titolo della prima versione, poi espunto come gli altri tre della serie nell’edizione definitiva) che dovrebbe recare il senso di un «cuore torturato», secondo le parole dello stesso Schumann in una lettera alla moglie Clara, non ci è parsa una scelta felice. Inoltre, la mancanza di un centro tonale stabile, nella scrittura, la quale dovrebbe apportare inquietudine, fremito e fantasmagorico smarrimento, è del tutto evaporata nella metronomica scansione del tactus, senza fantasia e inventiva. L’impassibilità emotiva, e quindi un legato problematico o eluso unito a un fraseggio algido, ha apportato quanto meno una chiarezza delle linee costruttive, c’è da dire, le quali sono riuscite anche piuttosto espressive nel terzo pezzo, un valzer a doppio trio, in cui però la cantabilità del primo non ha ricevuto quello sbalzo plastico che era lecito aspettarsi. Meglio la serie di accordi modulanti al Fa diesis minore del secondo trio, resi con impeto, finalmente, degno dell’anticonformismo costruttivo schumanniano. Ma la marcia lenta e tranquilla che chiude il ciclo, ancora, se n’è fuggita via senza canto, che pure nel canone centrale avrebbe da essere massimamente esaltato. Dimenticato Hoffmann e i suoi racconti tragici e allucinati, che costituiscono l’inhalt dell’Op. 23, i corteggi di cadaveri e di feretri, l’infelicità e la disperazione e l’angoscia, di questo grandissimo Schumann è rimasto ben poco, insomma, in un’esecuzione largamente insoddisfacente.
Né d’altra parte molto meglio è andata con i Cinque pezzi di Rachmaninov, dove solo nella Serenata finale Lisiecki ha trovato la varietà e i chiaroscuri essenziali per l’intenzionalità sonora pensata da Rachmaninov, oppure nel Pulcinella, con il suo macchinismo ritmico memore di fiere paesane: quanto all’Elegia, al Preludio e alla Melodia, il pestare ossessivo in modalità semiautomatica, diresti, ha coperto gli ansimi cromatici come la libera cordialità del canto che fondano il senso dei brevi pezzi. I due brani chopiniani sono stati eseguiti senza soluzione di continuità, l’uno dopo l’altro, e sia il Notturno che lo Scherzo sono risuonati privi di un decorso melodico e d’un fraseggio all’altezza della mirabolante fantasia di scrittura: affrettatissima, di timbro secco e arido la serie accordale di apertura dell’Op. 20, e il rutilante climax verso il registro alto seguente è giunto allo stesso modo trascurato, tirato via alla meglio e con piccoli errori (gli unici dell’intero concerto, c’è da dire, perché il ragazzo tecnicamente certo sa il fatto suo). E ancora un uso del legato tutto da rivedere ha avvilito l’afflato patetico/elegiaco della melodia arpeggiata dalla mano destra, prima della berceuse d’ispirazione folclorica, analogamente suonata ma non sentita da Lisiecki. Sprecata, appunto.
Per fortuna, a chiudere la prima parte del concerto, c’era stato il Gaspard de la nuit di Ravel. E qui si è palesato un interprete del tutto diverso, che ha trovato il suono e i timbri più convincenti, con una palette cromatica estremamente varia, specie nello Gibet, trasformato in un’inquietante e nerissima allucinazione macabra, come dev’essere, in cui l’ossessiva iterazione del pedale interno di si bemolle ha costruito il perturbante ritmo sincopato sul quale si costruisce l’intero pannello del trittico. Del resto, anche l’Ondine iniziale, forse scandita ancora una volta con un eccesso di meccanicità, aveva fatto udire (forse è stata l’unica volta, nel recital) un gusto per il canto spiegato ottimamente eseguito sulle cascate di arpeggi, grazie soprattutto alla mobile precisione della mano sinistra. Epico lo Scarbo finale, franto nel ritmo sghembo e sguincio, restituito con una bellissima idea di estemporanea improvvisazione, e con le dissonanze laceranti verso il finale a risuonare con impatto percettivo di vibrante, sconvolgente furore: qui il virtuosismo di Lisiecki ha dato il meglio di sé, come se nell’esecuzione tecnicamente esatta della scrittura, al momento, il suo pianismo si esaurisse.
Con il particolare stile di Ravel ovviamente funziona benissimo, questo tipo di approccio. Con i colossi romantici e i loro epigoni tardi, abbiamo da aspettare una maturazione che, se il giovane canadese non si farà fagocitare dallo star-system, potrebbe anche arrivare dopo qualche anno di studio intenso e di perfezionamento attento.
Schumann, Nachtstücke, op. 23
Ravel, Gaspard de la nuit
Rachmaninov, Cinq morceaux de fantasie, op. 3
Chopin, Notturno,op. 72 n. 1
Chopin, Scherzo n. 1