Da Chopin a Stravinskij
di Stefano Ceccarelli
Beatrice Rana, talento italiano, si esibisce all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con un concerto assai difficile su un piano tecnico: i 12 Studi per pianoforte op. 25 di Chopin, Iberia: Terzo Quaderno di Albeniz e Tre movimenti da Petruška di Stravinskij.
ROMA, 20 novembre 2019 –In un elegante abito da sera, Beatrice Rana fa il suo ingresso sul palco della sala Santa Cecilia. È oramai internazionalmente affermata e fa piacere che sia una gloria nostrana. Il suo pubblico qui, dunque, è un po’ il pubblico ‘di casa’. Beatrice Rana, quindi, si impegna in un programma nient’affatto semplice, soprattutto per la dose di arditezze tecniche e virtuosismi profusi.
La prima parte del concerto vede l’esecuzione dei 12 studi per pianoforte op. 25 di Fryderyk Chopin. Se devo essere sincero, pur nell’ottima qualità dell’esecuzione, direi che gli studi chopiniani sono stati eseguiti un po’ sottotono rispetto al resto della serata: ma nella seconda parte la Rana – anticipo già – è stata a dir poco sensazionale. Non che Beatrice Rana in Chopin abbia sbagliato qualcosa. Mi riferisco, piuttosto, a scelte puramente estetiche. Per esempio, negli studi più ‘atmosferici’, come il n. 1 (la celebre ‘Arpa eolica’), il n. 2 (‘Le api’) e il n. 6, forse un uso più parco del pedale avrebbe giovato a far udire meglio la pur tersa esecuzione del profluvio di note di cui sono composti. Quindi, se tecnicamente la Rana si è distinta per la rilassatezza con cui ha letto studi di notevole difficoltà, tali sono quelli chopiniani, forse potrebbe limare (e sicuramente lo farà, da interprete intelligente qual è) qualche scelta, qualche nuance, qualche atteggiamento in quanto interprete: ma qui, appunto, entriamo (pericolosamente) nel regno della soggettività. Ho, invece, molto apprezzato il gioco sul ‘rubato chopiniano’ in particolare nel n. 5, che ha quell’andamento quasi di ironica barcarola – almeno all’inizio, prima di aprire a uno squarcio lirico d’incomparabile delicatezza. Ma si lascia anche apprezzare irresistibilmente l’esecuzione dell’ironico n. 9 (la ‘Farfalla’); o il cambio di umore nei colori musicali del n. 10. Alla fine dell’esecuzione, l’interprete viene calorosamente applaudita.
Il secondo tempo è al di là delle più rosee aspettative, sia su un piano tecnico che interpretativo. La Rana è come galvanizzata: mi pare che il suo repertorio d’elezione sia proprio questo. La lettura del Terzo quaderno di Iberia di Isaac Albeniz è assolutamente strepitosa. La Rana riesce a giocare con i colori orientaleggianti e i ritmi, talora soffusi, talaltra sfrontati, di una scrittura che ha la sua maggior difficoltà non solo in un virtuosismo a tratti ossessivo, ma anche proprio nella giusta calibratura della tavolozza impressionistica. Sono le sfumature più particolari a dare la giusta cifra alla lettura della Rana, come quei lievi tocchi di melanconia sovrapposti così bene ai ritmi esotici delle danze tipiche spagnole; il tutto in un turbinio di note impressionante. L’esecuzione lascia a bocca aperta, letteralmente. Ma, forse, la parte in cui ho amato di più la Rana in questa serata è stata l’ultima: gli splendidi Tre movimenti da Petruška di Igor Stravinskij – e mi piacerebbe sentire Beatrice Rana in molto altro repertorio novecentesco. Incredibile l’abilità con cui inizia la Danza russa, conferendo quasi tridimensionalità agli accordi ribattuti che evocano la danza dei burattini animati al festante mercato pietroburghese. L’introspezione psicologica che promana dal pezzo Nella cella di Petruška è colta in tutta la sua essenza dall’interprete, che pure scolpisce le tensioni dell’ultimo brano (La Fiera dell’ultimo giorno di Carnevale). Applausi sinceri e spontanei suggellano una serata eccellente.