Afkham a Roma
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia presenta un concerto diretto da David Afkham, il cui programma è aperto dal Preludio e morte di Isotta dalTristan und Isolde di Richard Wagner ed è chiuso dalla Terza di Brahms. Fra questi due monumenti musicali si pone la prima esecuzione italiana di Triumph to exist di Magnus Lindberg, brano che, sebbene presenti qualche soluzione interessante, si caratterizza per una certa monotonia espressiva.
ROMA, 21 novembre 2019 – Il concerto diretto da David Afkham all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia si distingue per una netta linea tardoromantica. Wagner e Brahms, con la scelta, apprezzata e tutt’altro che scontata, della Terza del secondo. Oltre a questi due giganti della musica, nel primo tempo si dà la prima esecuzione italiana di Triumph to exist di Magnus Lindberg.
Il primo tempo inizia con Il preludio e la morte di Isotta da Tristan und Isolde di Richard Wagner. Afkham dimostra di essere un buon direttore, gestendo dignitosamente lo spesso impasto dei colori dell’orchestra wagneriana e restituendo, appropriatamente, l’inebriante eros del preludio e la sua trasfigurazione nella Verklärung; proprio qui Afkham dà prova di saper tessere un delicato tessuto con l’orchestra, la cui performance nel corso della serata è ottima. Il primo tempo prosegue con la prima italiana di Triumph to exist di Magnus Lindberg, su testi della poetessa Edith Södergran. Il pezzo è stato battezzato al Southbank Center di Londra da Vladimir Jurowski ed è stato pensato per celebrare il centenario dalla conclusione della Prima Guerra Mondiale. Le poesie della Södergran, infatti, risalgono proprio al sanguinoso conflitto che ha aperto il ‘900; sono testi ricchi di metafore, che si aprono a squarci cosmici, che ci parlano del disagio esistenziale dell’epoca e di una fuga tutta proiettata nel futuro. Purtroppo, la traduzione italiana non riesce a rendere la ritmicità con cui è costruito il testo originale (almeno da quello che ho potuto intuire, molto ricco di sonorità e ritmi); inoltre, la resa orchestrale di Lindberg non riesce, a mio avviso, ad elevarsi sopra a una partitura di maniera. Lindberg incardina i componimenti svedesi della Södergran in un tessuto chiarissimamente ispirato all’impressionismo musicale di Debussy e Ravel, senza però obliare echi distinti delle sonorità così tipiche della sua nazione, come quelle di Sibelius. Il tutto risulta, all’ascolto, piacevole nei molti punti in cui l’orchestra guizza e propone soluzioni esteticamente piacevoli, ma sostanzialmente già esperite, per esempio, da Ravel: se si chiudono gli occhi – addirittura – ci si potrebbe confondere, all’inizio del brano di Lindberg, con i sensualissimi interventi del coro nel Daphnis et Chloé, propriodi Ravel. Insomma, un brano che non si distingue per originalità (se non, forse, per il fatto di proporre piccoli inserti minimalisti, qua e là nella partitura), né per particolare presa sull’ascoltatore. Gli applausi, infatti, sono assai deboli. Un vero peccato, se si pensa che comunque il coro, al solito, ha fatto benissimo, come pure l’orchestra.
Il secondo tempo è dedicato alla Sinfonia n. 3 in fa maggiore op. 90 di Johannes Brahms. Mancava a Santa Cecilia da quasi un decennio e, quindi, è certamente benvenuta. Si tratta di un pezzo curato fin nei minimi particolari dal compositore, che ha nel III movimento un brano assai celebre, anche per il grande pubblico. A mio avviso, la Terza è la migliore esecuzione dell’intera serata. Afkham lascia andare l’orchestra con gesto elegante e curando, soprattutto, l’aspetto melodico, tratto assai evidente, in particolare, nel II e nel già citato III movimento, dove culla dolcemente il famoso tema. Nel I e nel IV trova una buona agogica, atta a valorizzare i colori e le spinte più accese di questi due movimenti; ben riuscito anche il finale in smorzando, che crea un effetto quasi ‘antiretorico’ rispetto a un atteso finale sinfonico. Gli applausi sono generosi.