La firma di Beethoven
di Roberta Pedrotti
Bel concerto beethoveniano a Bologna con l'intelligenza della direzione di Roberto Abbado e il tocco pianistico sapiente di Alexander Melnikov.
BOLOGNA, 12 ottobre 2020 - Fra recuperi e riprogrammazioni, torna a galla anche nella città petroniana l'accidentata - e dunque più che mai eroica - celebrazione beethoveniana del 2020. Concluse le fatiche del Festival Verdi, di cui è direttore musicale, Roberto Abbado si sposta da Parma a Bologna, dal Cigno di Busseto al Titano di Bonn con un concerto salvato dalla stagione condivisa del Comunale e della Filarmonica. E, nonostante tutto, sia benedetto allora il Paladozza, immenso cupolone in grado di ospitare un migliaio di persone distanziate, e sia benedetta la camera acustica donata cinque anni fa da Alfa Wassermann (a proposito, proprio l'11 ottobre il fondatore e mecenate Marino Golinelli ha compiuto cento anni: auguri!) che aiuta almeno un po' l'ascolto e raccoglie l'orchestra con il calore del legno fra tanta plastica, cemento, acciaio. E continuiamo a esserci, a tendere l'orecchio, tenaci, senza perderci d'animo.
Possiamo, così, tornare all'approdo e all'affermazione viennese di Beethoven, all'Accademia offerta ai suoi ospiti dal principe Franz Joseph von Lobkowitz nel marzo del 1807, con le prime esecuzioni assolute dell'Ouverture Coriolano e del Quarto concerto per pianoforte e orchestra. Torniamo allo spirito torvo e orgoglioso del generale romano ribelle, a un classicismo che isola sempre più valori esemplari e dilemmi tragici dall'utopia dell'equilibrio, che si fa modello di rivoluzionari più che prontuario etico per despoti illuminati, che cerca d'essere bussola in tempi sconcertati (il battagliero e meditativo do minore e il sereno rifugio del mi bemolle maggiore come poli contrapposti). Torniamo a quel concerto sovversivo in cui la tastiera non si distingue emergendo dai ranghi disciplinati del caro, vecchio basso continuo, ma addirittura si permette di dar l'attacco all'intera composizione e dettare il primo tema all'orchestra. Sul crinale sottile fra forma e invenzione, il pianoforte solista impone il suo punto di vista e le sue regole, fa vagare oltre misura la definizione delle tonalità, costringe l'assieme a tacere nella smisurata cadenza riassuntiva, a piegarsi alle sue riflessioni e divagazioni, a seguirlo nel traboccare impetuoso del rondò finale. Alexander Melnikov su questo crinale si muove con saggezza e un suono brillante che penetra con più facilità gli spazi del palazzetto. Questo suono, però, non si limita a zampillare nell'aria, ma si articola in un legato ben tornito in cui ogni nota è definita e naturalmente saldata nel discorso, in cui ora riconosciamo cascate fittissime di distinti bagliori perlacei, ora uno scorrere liquido di minute bolle sonore. Nondimeno, il moto delle dinamiche così ben affinato d'accordo con Abbado lascia spazio a ripiegamenti e ombreggiature che rivelano e non appesantiscono, dosando il contrasto, tutta la profondità del concetto beethoveniano. Con Skrjabin, poi, Melnikov saluta il pubblico e il bis ribadisce il controllo del tocco in un legato impeccabile e percorso da pulsazioni dinamiche, sottili sfumature timbriche.
Dopo un breve intervallo necessario per lo spostamento del pianoforte, un balzo indietro di sette anni, verso la Prima Sinfonia, il debutto di Beethoven come erede auspicato di Mozart e Haydn che non ricalca le orme dei predecessori, ma muove i propri passi proseguendone il cammino. Non segna una cesura, certo, ma è chiaro che la prima Sinfonia voglia far intendere la voce di Ludwig e non la diligenza dell'allievo, dimostrare che la lezione sia stata assimilata ed elaborata, non ripetuta. La forma è quella classica, il respiro generale, la costruzione dei temi, la struttura tonale, la distribuzione dei movimenti con la presenza del minuetto (cosa che non avverrà più fino all'Ottava) dimostrano chiaramente che il trentenne Beethoven si iscriva a pieno titolo nella scuola viennese e abbia Haydn come punto di riferimento. Ma nell'impianto tonale fervono intuizioni ed elaborazioni nuove, l'impulso ritmico ha una propulsione già riconoscibilissima, l'agitazione eroica che si affaccerà di lì a poco non sarà un'epifania repentina e inattesa, ma la naturale evoluzione dello sviluppo personale del linguaggio del tardo Settecento concretizzato già nel debutto sinfonico. Senza fronzoli, senza eccessi, la bacchetta di Abbado dipana tempi esatti, fluidi e limpidi, abbraccia la Sinfonia, come già Coriolano e il Concerto, al lume della ragione, ma senza inaridire la vena lirica e patetica, che invece si esprime come parte integrante e necessaria dell'intero discorso. Tutto il più possibile calibrato anche in rapporto con le caratteristiche dello spazio in cui ci troviamo: il pubblico, difatti, applaude con condivisibile soddisfazione.