L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Sapere Mahler

di Francesco Lora

La Sinfonia n. 3 forma da sola un programma che Zubin Mehta tiene con inossidabile grinta leonina di braccio e di mente. Eccellenti l’orchestra, il coro femminile e le voci bianche della Scala: un contesto che sta invece largo al mezzosoprano solista.

MILANO, 16 ottobre 2020 – Al Teatro alla Scala è il mese di Aida: lo è per le esecuzioni in forma di concerto, dirette da Riccardo Chailly, con le varianti ritrovate della primissima stesura [leggi la recensione]; lo è per il concerto che Chailly dirigerà il 21 ottobre, con Anna Netrebko e altre due pagine di Aida, «Ritorna vincitor!» e la scartata sinfonia per le recite milanesi del 1872; lo è infine per il rimando – involontario da parte del teatro, si direbbe; ma di rimando si tratta a tutti gli effetti – che ad Aida fa, in queste settimane, il programma di un altro concerto notevole. Esso consiste nella Sinfonia n. 3 in Re minore di Gustav Mahler, in cartellone il 14, 16 e 17 del mese, come recupero delle serate cancellate gli scorsi 7, 10 e 12 marzo. I mahleriani smaliziati – ecco il punto – sanno quanta stima riponesse il loro compositore in Giuseppe Verdi; se nella Sinfonia n. 2 è menzionato un frammento melodico dal monologo finale di Otello, nel colossale primo movimento della Terza ricorre invece una citazione, appunto, da Aida: è il tema perentorio di «Al mio piè nella polve disteso», l’accorato verso che Amonasro declama nel Finale II. Di norma lo si ascolta e non ci si bada troppo; nell’aidesco ottobre della Scala ci si bada eccome. Sia inteso: non è l’unica cosa cui badare nella più lunga sinfonia della storia e in un così blasonato concerto scaligero. Zubin Mehta si muove verso il podio a passetti faticosi, ma per dirigere a memoria, e con inossidabile grinta leonina di braccio e di mente. L’ultima volta che alla Scala si era ascoltata la Terza era due anni e mezzo fa, con la direzione di Chailly, e in quell’esecuzione si erano venerati il tripudio di colori e la lucidità dello studio [leggi la recensione]. Con Mehta l’incedere si fa assai più dilatato e poderoso, la pennellata diviene graffio, alle maniere del come si sostituisce la crudezza del cosa: non c’è la partitura aperta a mediare tra direttore e orchestra, bensì un’asciutta idea dell’opera ferma nella mente del concertatore. Mehta non ha studiato, in altre parole, la Terza di Mahler; Mehta la sa: spolpata all’essenza, ma la sa; e sa tirarla fuori con stupendo riscontro tecnico e poetico dall’orchestra della Scala, quella che giusto ieri era parsa sulle uova tra mascherine e leggi individuali. Ottimo appare il relativo coro femminile, ma persino più prestanti risultano le voci bianche dell’Accademia, disciplinate come fossero tedesche e però con una cordialità fonetica, una rotondità timbrica che oltre le Alpi ci si può solo sognare. A fare magra figura nell’eccellenza del contesto, così, è soltanto il mezzosoprano Daniela Sindram: malvestita con le scarpe gialline e il tubo nero smanicato, con ampio spacco frontale a procurarle un’impudica seduta; diligente nel canto, va bene: ma il liederistico mistero del quarto movimento, dove si intonano versi austeri di Friedrich Nietzsche, nonché i memorabili interventi nel quinto, tra il canto corale di donne e bambini, esigono di volta in volta ben altra statura canora, tecnica e retorica in fatto di sospiri e marmo, moniti e smalto, tinte e velluto.


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