Memoria viva
di Roberta Pedrotti
La stagione del Teatro Massimo di Palermo prosegue in streaming con un Ernani capace di fare dello streaming non un surrogato passivo, ma un ponte dialettico fra la tradizione e un futuro concreto. La suggestiva realizzazione scenica si sposa alla concertazione incisiva e intelligente di Omer Meir Wellber e alle belle prove di un cast ben assortito.
Streaming da palermo, 26 febbraio 2021 - Dopo la creatività libera da ogni confine di genere (in tutti i sensi) del concerto di Capodanno, dopo l’inaugurazione capolavoro con Il crepuscolo dei sogni, il Teatro Massimo non cessa, in questa stagione surreale, di imprimere un proprio marchio e affrontare l’emergenza come soggetto attivo e inventivo. Lo conferma anche nel richiamo alla tradizione che permea questo Ernani come segno di continuità, come radice e non come statica ripetizione. I bozzetti di Francesco Zito, infatti, si rifanno a modello ottocenteschi, richiamano un’idea sfarzosa d’opera ancorata ai riferimenti storici; in più, ci riportano all’ultimo Ernani visto a Palermo, quello con Vincenzo La Scola protagonista (e al tenore prematuramente scomparso dieci anni fa la recita è dedicata). La nostalgia è affettuosa, non si appesantisce sotto velluti e damaschi che due lustri fa, riprendendo lo stesso allestimento, avevano vestito a Bologna recite teatralmente inerti: al contrario, se in questi costumi i personaggi si aggirano su una platea lucida, deserta, senza potersi avvicinare, nella totale sottrazione scenica acquistano tutt’altro valore. Non sono più decorazione, ma rinascono come essenza di un teatro sospeso che tuttavia non si lascia sfumare, non si interrompe, riemerge come un sogno che dal passato non smette di guardare al futuro. Così è per i fondali proiettati e animati, che nella sala si trasformano in luci a disegnare suggestioni e frammenti d’ambienti; così è per i figurini che si alternano e accompagnano alle riprese in diretta del coro distribuito nei palchi in nero neutro. Così è anche per la telecamera che sbircia il dietro le quinte con perle e broccati mescolati agli abiti da lavoro e alle mascherine di trucco, parrucco, sartoria, assistenti.
Questo teatro che, dovendo rinunciare alla sua naturale fisicità, si espande in tutte le dimensioni fisiche del Massimo (mise en espace Ludovico Rajata, costumi e progetto visivo Francesco Zito, assistente per il progetto visivo Andrea Fiduccia, animazione digitale Fabiola Nicoletti, luci Giuseppe Di Iorio, ideazione e coordinamento televisivo Gery Palazzotto, Antonio Di Giovanni regia televisiva) si anima nella tensione impressa dal direttore musicale Omer Meir Wellber. In un’opera che è tutta una corsa fremente e disperata verso la morte, precipitarsi alla cieca nell’impellenza del dramma sarebbe senz’altro un errore e sfocerebbe nel caos, mentre qui tinte e accenti giustamente corruschi trovano la loro esatta collocazione, sanno sospendersi dove necessario (“Infelice e tu credevi” valga per tutti, doloroso e dolce ai limiti dell’inquietante), dosare il crescendo in base al senso, far respirare l'integralità di forme ed equilibri. Dal sussurro fermo e febbrile “Si ridesti il Leon di Castiglia” si afferma sempre più determinato e solenne, nobile e ruvido come sanno essere tutti gli accompagnamenti in cui anche il gesto apparentemente meccanico, per esempio in certe terzine o in certi pedali, riprende il suo diritto di elemento significativo in un linguaggio. E, cosa meravigliosa, quello spettro di valzer che accompagna il finale può avere con eguale coerenza volti diversi: altrove l’avevamo avvertito come un cullante abbandono estremo, qui percepiamo il rovescio della medaglia in una pulsazione ansiosa, in un’accentuazione nervosa. Ernani non si getta a testa bassa verso la morte, il suo cammino è segnato già dalla malinconia dell’”appassito fiore” della sortita, ma è un percorso in cui si dibatte, un destino che cerca e al quale nello stesso tempo si ribella, tanto che se la sua sfrontatezza (“Io tuo fido? Il sarò tutte l’ore”, “Io son conte, duca sono”) non è solo provocatoria, quasi suicida, ma è anche fiera, indomita, nobile, a suo modo. In un’epoca in cui nessuno crede più all’eroismo tenorile degli anni ‘50, esattamente come il sistema di valori di un Eschilo entra in crisi anche trattando gli stessi miti con Euripide, Ernani resta un capolavoro che, anzi, si svela sempre più inaspettatamente profondo e attuale.
Nella compattezza della partitura così ben serrata dalla sua bacchetta senza soffrire l’assenza di applausi liberatori fra un numero e l’altro (se mai si può ancora parlare di rigida distinzione dei numeri in Ernani), Wellber concede a Silva la cabaletta non prevista nel disegno originario di Verdi, che l’aveva scritta per l’Oberto, ma interpolata da Ignazio Marini: ne ha ben donde, dato che ha a disposizione un Michele Pertusi e l’estensione della parte da comprimario a primario imprescindibile. Per di più, siamo ancora a ricollegarci al passato: se i costumi sono i medesimi dell’ultimo Ernani palermitano, protagonista La Scola, il basso pure è il medesimo della storica edizione in cui proprio la Scola aveva esordito nella parte (Martina Franca 1991, a completare il cast, pure giovanissimi, Daniela Dessì e Paolo Coni). A Pertusi la parte è viepiù cara essendo quella in cui debuttò diciannovenne a Modena: gli calza come una seconda pelle e se potessimo inventare nuovi superlativi lo faremmo volentieri. Ma, in realtà, la grandezza di Pertusi è tale proprio perché rifugge l’eclatante, si concentra nello sguardo, nella minima inflessione di un legato di velluto che è senz’altro splendido, ma è prima di tutto significativo e in quanto tale ancor più seducente. Convince della sincerità del suo amore, della delusione, del dolore, tuttavia ci lascia ben intendere che quell’amore è sinistro, unilaterale, coercitivo, ci tiene in bilico fra l’empatia e l’orrore, nella pura semplicità della sua insensibile determinazione finale.
Di fronte a tanto Silva è facile scivolare nell’ombra. Non lo fa tuttavia Eleonora Buratto, sempre più sicura quale Elvira dopo il bel debutto parmigiano di settembre. La frequentazione recente di Fiordiligi (appena cantata alla Scala e a Torino) la rende anche più disinvolta nella coloratura della cavatina, sebbene sia poi nel prosieguo del dramma che la sua voce ampia e morbida si esprime al meglio, da “Fiero sangue d’Aragona” a “Ah! Signor, se t’è concesso” al duetto e terzetto finale. Si apprezza anche Giorgio Berrugi, che canta bene tutto quel che c’è da cantare, accenta con intenzione, non perde una parola, non scade nell’effetto senza causa. Nei panni asperrimi di Carlo prima re e poi imperatore, Simone Piazzola accusa qualche momento di stanchezza, ma la voce è di per sé assai bella e adatta alla parte e si rinfranca via via, come se gli si addicesse più l’ispirazione sublime della dignità imperiale rispetto all’irruenza del giovane sovrano libertino. Una lode va senz’altro anche alle parti cosiddette di fianco, all’intramontabile certezza del grande Carlo Bosi (Don Riccardo), alle interessanti promesse di Irene Savignano (Giovanna dalla voce ricca e pastosa) e Andrea Pellegrini (Jago selezionato nel Concurso Viñas di Barcellona); soprattutto, però, bisogna riservare un plauso speciale al coro preparato da Ciro Visco. Pur sparpagliato nei palchi - colpo d’occhio fenomenale - canta come un sol uomo senza perdere la sua consapevolezza di voce collettiva, forte della sua idiomaticità, sia piegata nel gozzovigliare dei masnadieri, nel cinguettare di donzelle, banchettar di gentiluomini, avventarsi di guerrieri, cospirar di congiurati.
Alla fine, il silenzio ci lascia non con il senso d’aver sorseggiato un surrogato, ma di aver seguito un percorso ancora sospeso, per riempire quel vuoto e quel silenzio, riprendere quel discorso infinito che è il teatro.