L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Quel che resta del Turco

di Luigi Raso

Trasmessa in streaming dal 19 al 31 marzo, l'opera rossiniana registrata al Teatro di San Carlo a fine febbraio può contare su un ottimo cast (specie Paolo Bordogna, Julie Fuchs, Ruzil Gatin e Alessandro Luongo) ma è penalizzato dai tagli e dalla forma oratoriale, che ne mortificano la vitalità.

Streaming da Napoli, 19 marzo 2021 - Quando, nel 1814, Rossini scrive per il Teatro alla Scala Il turco in Italia, il suo destino non si è ancora incrociato con quello dell’allora capitale borbonica. L’incontro avverrà soltanto pochi mesi dopo. Dal 1815, e per ben sette anni, diventerà il dominatore assoluto della scena musicale napoletana, il che equivaleva a rendere, in quello scorcio dell’800, il giovane pesarese signore incontrastato della principale piazza operistica dello Stivale.

Durante il settennato napoletano Rossini codifica i canoni dell’opera seria ottocentesca, riuscendo a trovare (soprattutto) il tempo per divagazioni amorose e per far sua amante Isabella Colbran; a Napoli Rossini è conteso e osannato dai salotti nobiliari e artistici della città. Eppure da Milano, ritornando all’epoca di composizione del Turco in Italia, Rossini dimostra di aver un’idea già delineata della spontanea teatralità della città di Napoli: riesce infatti a scrivere, probabilmente inconsapevolmente, un’opera che sublima - come già era accaduto con il Mozart del Così fan tutte - topoi, persone e maschere della tradizione buffa napoletana, sebbene già prossima all’estinzione.

Il giovanile Turco in Italia sprigiona spontanea teatralità, un’esplosione vitalistica di energia; si percepisce l’alito del mare e il caos che con ossessione ritmica e melodica innerva da secoli, quale irrinunciabile cifra identitaria, la millenaria città di Napoli, una città che vive nel culto perenne del carpe diem, ammonita costantemente dal cannone del cono del Vesuvio su di essa puntato.

Può apparire esaltazione di abusata oleografia, ma così non è: il genuino e geniale intuito artistico di Rossini coglie da Milano lo spirito della città, tanto da mettere in scena nel finale dell’atto I, in un crescendo di improperi e parossismo, uno strascino ante litteram tra Fiorilla e Zaida, degno di quella che costituirà la migliore tradizione teatrale partenopea.

Napoli, del resto, è una città che resterà nel cuore di Rossini, anche successivamente all’abbandono della stessa nel 1822: vi ritornerà nel 1839, accettando il premuroso invito di Domenico Barbaja. Della felicità di un tempo non è rimasto nulla: l’adorato padre Giuseppe, detto Vivazza, è morto da poco, Rossini ha abbandonato da anni il mondo dell’opera. In quel 1839 Rossini è ospite di Barbaja presso la sua Villa - oggi signorile condominio, ancor denominato Palazzo Barbaja - prospiciente le rive di Mergellina. Per pura suggestione, da melomani rossiniani, ammirando i balconi dell’odierno Palazzo Barbaja, siamo portati inevitabilmente a immaginarci Rossini affacciato a contemplare il Golfo di Napoli e a rivedere scorrere davanti ai suoi occhi i ricordi del felice periodo napoletano, i successi sancarliani, il “furore” che il pubblico gli decretò alla sua prima prova operistica, gli amori, l’incontro con la musa, amante e poi prima moglie Isabella Colbran. E chissà, forse, da quel balcone in quel triste 1839 Rossini avrà forse ripensato alla geniale opera buffa scritta a Milano ben un quarto di secolo prima, alla sua vicenda ambientata proprio sulla spiaggia di Napoli. All’immaginazione tutto è concesso.

È un peccato, dunque, che della strabordante teatralità e magmatica esplosione di vitalità in questa ripresa del San Carlo, registrata a teatro vuoto lo scorso 27 febbraio, resti ben poco. Demerito, in primo luogo, di una ripresa in forma di concerto: sono trascorsi quasi cinque mesi dalla seconda chiusura al pubblico dei teatri e ancora assistiamo alla presentazione di opere in forma di concerto, mentre la maggior parte delle grandi Fondazioni liriche italiane ha saputo inventarsi nuove e aggiornate forme di rappresentazione consone ai duri dettami di questa lunga “epoca Covid”.

E si dà peccato ancor più grave - giusto per parafrasare Donna Fiorilla - se all’assenza di regia, del benché minimo elemento scenografico, di abiti di scena si aggiunge l’integrale soppressione dei recitativi: il completo dissanguamento della teatralità dell’opera è servito!

Il risultato è un simulacro di dramma buffo: i numerosi pezzi d’assieme che fanno del Turco in Italia “opera di ensembles” (Philip Gossett) appaiono slegati tra loro, giustapposti asetticamente; danno l’idea di una sequenza di perle musicali non sorrette del filo della drammaturgia.

Al già (in)naturale prosciugamento di teatralità subito dall’opera trasmessa in streaming non può aggiungersi la mutilazione di parte del suo testo. È troppo, anche in questa epoca che ci ha abituato a troppe privazioni.

Sul piano musicale, accantonata questa necessaria reprimenda, la concertazione di Carlo Montanaro si dimostra tendenzialmente solida e sicura: vi è un buon equilibrio dei rapporti sonori tra voci e orchestra - benché l’audio di registrazione sia eccessivamente basso per consentire di farsene un’idea precisa - , una ben distribuita tenuta dei pezzi d’insieme e una costante attenzione alle esigenze canore. Manca, però, nella concertazione quel sulfureo brivido teatrale, quel repentino alito di surrealismo che brani come il Quintetto dell’atto II ("Oh, guardate che accidente!") devono necessariamente emanare: quella di Montanaro è una conduzione improntata alla speditezza, ma che teme di osare, restia a immergersi a piene mani nella sulfurea vitalità dell’opera, nel dar fuoco al gioco dell’azione teatrale. Il Rossini del Turco avrebbe meritato qualche stretta più bruciante, una agogica più contrastata, piuttosto che una concertazione orientata su una corretta uniformità di tempi. L’orchestra e il coro, guidato da Gea Garatti Ansini, ad ogni modo, assicurano il buon livello esecutivo per l’intero spettacolo.

Sul fronte vocale, il Selim di Marko Mimica è efficace, benché non dotato di timbro vocale, almeno al principio dell’opera, benedetto da Dio: è un Turco alquanto compassato, poco immerso nella temperie gioiosa dell’opera. La voce, anche a causa di un’emissione piuttosto ruvida, denota a tratti poca rotondità e aridità nei colori.

Indiscutibilmente dotata di eccellenti mezzi vocali, di voce compatta e dal colore luminoso, melodiosa per ricchezza di armonici, è la Donna Fiorilla di Julie Fuchs, debuttante al San Carlo. Con ottima la linea di canto farcita di abbellimenti e colorature, con eccellente controllo dell’emissione, il giovane soprano francese delinea una Donna Fiorilla civettuola, lepida, che è un piacere ascoltare e vedere: siamo sicuri che un contesto propriamente teatrale ben avrebbe galvanizzato le evidenti attitudini interpretative, consentendole di sfaccettare ancor più compiutamente il suo personaggio. Il  Recitativo accompagnato e aria "I vostri cenci vi rimando... Squallida veste e bruna" è cantato benissimo e con buon temperamento.

A dar voce alla parte creata a Milano da Giovanni David, tenore che Rossini ritroverà a Napoli nella meravigliosa scuderia vocale messagli a disposizione da Domenico Barbaja, è il giovane Ruzil Gatin: voce ben impostata, squillante, con naturale e spontanea predisposizione a salire verso il registro acuto, bravo a dominare le colorature, è perfetto nel ricreare un Don Narciso affettato, petulante, come si conviene a un perfetto cicisbeo.

Il Don Geronio di Paolo Bordogna è un refolo di teatralità rossiniana in uno spettacolo, come scritto in precedenza, che della rinuncia alla viva drammaturgia giocoforza ha fatto tratto caratteristico: a un artista qual è occorrono poche inflessioni vocali, prosodia perfetta, pochi accenti giusti sparsi qui e là per fare teatro. Un prova da consumato buffo rossiniano che avrebbe meritato l’arena di un compiuto spettacolo teatrale con tanto pubblico. Paolo Bordogna conosce bene ciò che i ruoli buffi di basso-baritono rossiniani postulano: senza strafare, senza effetti fini a se stessi, cala le sue carte. Ne deriva un Don Geronio ferito nel proprio onore di marito, ma pur sempre connotato da tratti di signorilità, vocale e interpretativa. In definitiva, pur nella concisione della parte che Rossini gli assegna, il migliore in campo.

Alessandro Luongo è un Prosdocimo in crisi di ispirazione, a tratti nevrotico nei movimenti: osserva il mondo dal di fuori, cercando di carpirne i meccanismi interni con la speranza di trovarne la giusta linfa per il dramma buffo che ha da fare. Canta bene, è sempre attento al peso della parola, aspetto di estrema importanza per un parte alla quale Rossini non destina arie. La presenza del Prosdocimo di Luongo aleggia sull’intera opera: i suoi interventi sono sempre ben mirati ed efficaci, grazie a buona dizione e senso della parola scenica che gli fanno perdonare talvolta qualche forzatura nell’emissione.

Fa molto bene la Zaida di Gaia Petrone, molto brava nel delineare un donna ferita nei propri affetti. Pur nella brevità della parte è di grande efficacia l’Albazar di Filippo Adami.

Non sappiamo per quanto altro tempo ci sarà negato poter rientrare nei nostri amati teatri; nell’attesa, coltiviamo la speranza di poter assistere alla prossima opera trasmessa in streaming - al momento, però, non se ne ha notizia - che sappia fornirci, con tutti i limiti della ripresa asettica, un più marcato ricordo di ciò che è teatro.

Questa produzione del Turco in Italia sarà visibile a pagamento fino al 31 marzo 2021 tramite il seguente link: https://www.mymovies.it/ondemand/teatrosancarlo/movie/tsc-turco/


 

 

 
 
 

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