Turandot secondo Luciano Berio
di Luca Fialdini
Il Festival di Torre del lago si propone finalmente uno sguardo più originale e approfondito sul catalogo pucciniano, anche attraverso versioni alternative. Debutta così anche nella città di Puccini il finale di Turandot composto da Luciano Berio. Daniele Abbado firma un nuovo e suggestivo allestimento, accolto con grande successo.
TORRE DEL LAGO, 20 agosto 2021 – A vent’anni dalla sua composizione, finalmente il finale di Berio per Turandot approda anche alle sponde di Torre del Lago: nel secondo anno della direzione artistica di Giorgio Battistelli si iniziano finalmente ad affacciare le “versioni alternative” dei titoli pucciniani. Il catalogo del sor Giacomo, paragonato a quello di altri operisti a loro volta titolari di festival dedicati come Verdi o Rossini, è davvero ristretto: i titoli d’opera solo solamente dieci. Tuttavia è pur vero che sei di questi hanno a carico almeno una seconda versione (con Butterfly si arriva alla quinta) e con uno scalino importante; non è quindi un’operazione priva di importanza recuperare una determinata versione che vada oltre quella comunemente eseguita, considerando che altri teatri - come la Scala - hanno puntato proprio sulla riscoperta di altre redazioni delle opere del compositore lucchese. Il Festival Pucciniano dovrebbe anzi essere il capofila di simili operazioni.
A novità segue novità: con l’occasione del finale Berio, si propone un nuovo allestimento targato Daniele Abbado. Turandot è sicuramente un enigma di difficile soluzione per la regia, che si trova a dover gestire una principessa (con evidenti turbe psichiche) dedita a tagliar teste, un principe straniero che scioglie i tre micidiali enigmi in un batter d’occhio e una schiava che si sacrifica apparentemente per niente e che viene dimenticata dagli altri personaggi in tempo zero, Calaf in testa. Inoltre tralasciando tutti i controsensi tipici del melodramma (la schiava innamorata per colpa di un sorriso, i ministri-spalle comiche, la principessa di gelo che cambia idea in poche ore, ecc.), pesa molto anche il fastidioso status di opera incompiuta con l’incomprensibile sgelamento di Turandot che resta de facto irrisolto. In tutto ciò, Abbado riesce a trovare una soluzione elegantemente coerente: lo spazio evocato è quello di una Pechino irreale, eccellente per il contesto fiabesco che oscilla tra sogno e realtà, in cui coesistono senza dissonanze elementi moderni e decisamente antichi. Niente sfarzosità, niente chincaglierie, le scene sono cupe e attraversate da un’austera pennellata di grigio; Angelo Linzalata realizza una scenografia imponente ma senza grandeur, stilizzata e potentemente evocativa. Con l’unione al disegno luci, sempre di Linzalata, si ottiene un colpo d’occhio molto vicino alle fotografie di Fan Ho.
I costumi di Giovanna Buzzi si uniscono a questo elegantissimo pastiche temporale, dove ci sono costumi orientali antichi (quello di Altoum), del passato recente (quelli del coro e di Calaf) ma anche strettamente occidentali, come le mise in giacca e cravatta di Ping, Pang e Pong. Il tutto concorre a creare quell’atmosfera straniante, dove si mescolano tratti di forte realismo e altri puramente simbolici, uno su tutti il sacrificio quasi rituale di Liù, che si versa addosso una coppa di sangue. In un simile contesto, molte delle irregolarità e delle bizzarrie dell’opera trovano collocazione e acquistano quasi una sorta di giustificazione ed ecco che il finale di Berio va a costituire una sorta di quadratura del cerchio. Esiste sempre il senso di non finito legato alla trama, ma nel progressivo spegnersi della musica si riconosce la vera conclusione della drammaturgia, perché si raggiunge un valore mai toccato in tutto il resto dell’opera: l’umanità. Sulla scena non abbiamo più personaggi di una fiaba, ma veri esseri umani inghiottiti dal senso misterioso del vivere. E qui la conclusione sospesa è l’unica possibile.
Sul podio c’è John Axelrod che si allinea con l’idea “non la solita Turandot” e lo si sente fin dai primi accordi. L’idea di fondo è buona, cioè voler mostrare la cruda modernità della partitura, e per questo Axelrod adotta un piglio sanguigno, mette in risalto la nervosità della scrittura, sceglie colori violenti; il supporto del podio, invece, è più discontinuo quando si tratta dell’accompagnamento ai solisti. L’Orchestra del Festival Puccini risponde bene alle provocazioni, con timbri puliti e fraseggi precisi; talvolta l’insieme pecca di compattezza, pur trattandosi di poche sbavature. Questo problema affligge di più il Coro, che meriterebbe maggior precisione. Buono il coro di voci bianche preparato da Viviana Apicella.
Le voci chiamate in causa sono di livello molto diverso tra loro, ma in generale l’insieme è di buon livello e si riesce a portare a casa la serata senza grandi problemi. Bravi i comprimari, a partire dal Principe di Persia di Giovanni Cervelli e le due ancelle di Fleur Strijbos e Luisa Berterame. Francesco Facini è un Mandarino solido, ben centrato nel ruolo. Ottimi i due padri: Kazuki Yoshida - direttamente dall’Accademia Puccini - è un Altoum di lusso, con un’eccellente dizione e perfetto nella resa del personaggio, mentre Nicola Ulivieri dimostra grandissima precisione in fraseggio e intonazione.
Giulio Mastrototaro, Andrea Giovannini e Marco Miglietta interpretano rispettivamente Ping, Pang e Pong. Il trio è compatto e di notevole caratura, da segnalare la duttilità delle voci ma anche dei cantanti stessi, in grado di cantare anche nelle situazioni più scomode.
Molto interessante la Liù di Emanuela Sgarlata, giovanissima e con qualche acerbità, ma ha dimostrato grande musicalità e un timbro molto omogeneo. Nella maturazione del personaggio dovrà cercare più varietà nelle espressioni e nei colori (tutta la parte era un po’ squilibrata sul forte), ma il personaggio è ben inquadrato e dotato di un carattere spiccatamente personale.
Amadi Lagha nei panni di Calaf è esattamente come ci si aspettava (e come in qualsiasi altro ruolo): bella voce, buona intonazione e presenza scenica, ma nient’altro. La cosa più fastidiosa è il fraseggio, quasi totalmente a istinto, che spesso causa dei grandi punti interrogativi a podio e orchestra. Si aggiungono corone e code arbitrarie e spesso - persino nel - la conduzione del fraseggio è tanto approssimativa che si arriva a frasi che non respirano. Le potenzialità per un interprete di rilievo ci sono, ma si preferisce cercare l’applauso a ogni costo.
Emily Magee è alle prese con un debutto maturo nel ruolo del titolo. Il soprano statunitense ha uno strumento notevole, dal timbro chiaro che diventa metallico man mano che si sale, però si sente lo scalino del passaggio di registro nonostante qualche accorto camouflage. Ad ogni buon conto Magee sostiene bene una parte assai pesante, in cui si chiede al personaggio di urlare dall’inizio alla fine (da qui la spiegazione del finale secondo Berio: per arrivare allo sgelamento Turandot deve smettere di urlare). Gli acuti ci sono tutti, ben intonati e saldi, l’interpretazione è convenzionale ma sicuramente sentita.
Questa nuova produzione di Turandot viene salutata con entusiasmo da parte del pubblico e rimarrà sicuramente memorabile per l’allestimento, il comparto musica avrebbe necessitato di qualcosa in più.