Monteverdi fra Dante e Berio
di Francesco Lora
L’Orfeo di Spoleto, ripreso a Ravenna, rimane a metà strada fra il “divin Claudio” e una vecchia riscrittura di Luciano Berio, nell’altrimenti valoroso lavoro teatrale e musicale di Pier Luigi Pizzi e Ottavio Dantone.
RAVENNA, 6 novembre 2021 – Se il gioco prende una brutta piega, meglio cambiare strategia o avere la prudenza di fermarsi; in tutti i casi, guai a dipendere da quel passato prossimo che si è tradotto in un vicolo cieco. Negli scorsi anni Ottanta, Luciano Berio aveva composto una propria reinvenzione dell’Orfeo di Claudio Monteverdi, data al Maggio Musicale Fiorentino; «intendeva recuperarne la spontaneità e quindi farla interpretare non da voci liriche impostate, ma naturali. E poi aveva interamente ripensato la parte strumentale affidandola ad un complesso di plettri, ad una rock band, a strumenti barocchi e facendo anche ricorso a voci registrate, sintetizzatori, musica elettronica»: così Pier Luigi Pizzi, coinvolto da regista, scenografo e costumista, ricorda quel progetto. Ma va aggiunto: in quei tempi la consapevolezza della musica antica, dell’eseguirla e dell’ascoltarla, brancolava nel buio pesto, e in Italia più che altrove; si era ardentemente ed erroneamente convinti – vizio tuttora difficile da spegnere – che un’opera del 1607 fosse ormai un testo indecifrabile, un canovaccio bisognoso di riscrittura, un reperto lontano dall’interesse e dalla comprensione del pubblico: tutte tesi che si sono via via sfaldate, attraverso lo studio dei musicologi, la sfida dei musicisti e l’esperienza degli ascoltatori, affascinati più dal riscoprire il lascito autentico di epoche lontane che dal farsi propinare aggiornamenti viepiù anacronistici, pretestuosi e mistificatorii. Tagliando corto: L’Orfeo secondo Berio è oggi archeologia musicale più dell’originale di Monteverdi, né la prospettiva storica è ancora matura per tornare a quel discorso finito in secca. Al Festival di Spoleto, al contrario, c’era tutta l’intenzione di riproporre, l’anno scorso, quella vecchia riscrittura, coinvolgendo di nuovo Pizzi: si è poi messa di traverso la pandemia, e per salvare il gioco si è infine deciso di mantenere il progetto teatrale ma di tornare alla più maneggevole partitura di Monteverdi. Le voci «naturali», non «liriche impostate», erano però ormai state in parte scritturate, e le obsolete opinioni di Berio avevano iniziato a serpeggiare: ecco allora una compagnia di canto ibrida, qui e là estranea sia al teatro d’opera sia alla specializzazione secentesca; ed ecco anche il sacrilegio, stolto, senza giustificazione drammaturgica che tenga, inferto alla più equilibrata delle partiture: il taglio netto del finale dell’opera, dalla discesa consolatoria di Apollo al duetto dei tenori e ai festosi coro e moresca conclusivi.
Lo spettacolo spoletino è stato ripreso al Teatro Alighieri di Ravenna gli ultimi 6 e 7 novembre, durante le celebrazioni dantesche cui non è sfuggito quel verso della Commedia intonato nell’Orfeo: «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate». Nel programma di sala – da lì provengono i passi citati – Pizzi argomenta e riafferma le scelte soggettive, avendo come sodale, punto per punto, il concertatore Ottavio Dantone. Le scelte insostenibili spiacciono, e non si saprebbe dire se escano controbilanciate, o se invece spiacciano maggiormente, nell’altrimenti valorosa lettura sia del regista sia del direttore. Quella di Pizzi si avvia come innocua mise en espace visivamente giocata su scene e costumi in bianco e nero; poi arrivano le scene infernali e con esse i colpi da maestro: l’inesorabile consegna cerimoniale di Euridice all’oltretomba, l’incorporea processione di ombre velate fra le caligini, quel bianco e quel nero fatti svanimento tra la vita e la morte; terribilità che soggioga. Così come degno è il lavoro di Dantone con gli strumenti della sua Accademia Bizantina, nonché con le voci del coro Cremona Antiqua meticolosamente preparato da Antonio Greco: una lettura chiara, severa, impegnata più del solito, nella quale il capriccio di sforbiciare appare dunque incomprensibile come non mai. Problematica per tensione e intonazione della frase musicale, tenuta di fiati e proiezione comprese, è la prova canora di Vittoria Magnarello, come Musica, e di Eleonora Pace, come Euridice: esse esemplificano appunto l’errore – altrui, non loro – di affidare simili parti a musiciste prestate solo in via occasionale al teatro d’opera; una condizione, questa, cui Alice Grasso, come Messaggiera, reagisce con superiore capacità di intuizione e adeguamento. Nella parte protagonistica, Giovanni Sala si butta anima e corpo affinché nessuna occasione di eleganza musicale o protesta retorica resti intentata. Egli merita lode, come pure la vellutata Proserpina di Daniela Pini, la calda Speranza di Margherita Maria Sala, il sontuoso Caronte di Mirco Palazzi e il granitico Plutone di Federico Sacchi. I quattro Pastori si distinguono nell’espansivo Massimo Altieri, nel rarefatto Luca Cervoni, nell’ingessato Enrico Torre e nel poderoso Antonio Dernini, cui sul fronte femminile si affianca la puntuale Chiara Nicastro come Ninfa. A dispetto dell’essere relegati nella maglia polifonica o in interventi minimi, Anna Bessi, Marco Saccardin e Renato Cadel – Ninfa e Spiriti – sanno farsi notare per qualità timbrica e sana risonanza.