Un salisburghese in Boemia
di Luca Fialdini
La bacchetta di Iván Fischer conquista il Maggio Musicale Fiorentino con Mozart e Dvořák
Il mondo del teatro e - più in generale - dello spettacolo dal vivo è stato colpito duramente dall’emergenza dovuta al Covid-19 non solo sotto il profilo economico, ma anche su un aspetto più sottile: si continuano a fare produzioni e a proporre concerti a cui si può accedere grazie allo streaming, ma le sale restano vuote. Non si discute sull’importanza di mantenere vivo il legame tra pubblico e spettatori, ma una platea digitale non può compararsi a un teatro gremito. Così, presto sarà possibile per tutti ascoltare in streaming lo splendido concerto di Iván Fischer e dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, ma domenica 21 febbraio la platea del Teatro del Maggio ha visto solo i tecnici delle riprese, gli addetti del teatro e - naturalmente - chi scrive.
Il programma è davvero singolare, la Sinfonia n. 34 in do maggiore K 338 di Wolfgang Amadeus Mozart e la Sinfonia n. 7 in re minore op. 70 di Antonin Dvořák; due lavori separati da 105 anni, da diversa intenzione di partenza e dalla naturale evoluzione della sinfonia, ma con similitudini importanti: entrambi i lavori contengono una buona dose di sperimentazione e contengono un forte legame con la biografia dell’autore (fatto inconsueto, almeno per Mozart).
La Sinfonia n. 34 rappresenta l’ultimo lavoro del genere composto da Mozart prima della rottura con l’ambiente salisburghese in vista del trasferimento a Vienna. Non per niente il lavoro è suddiviso in tre movimenti, cioè secondo i canoni della sinfonia italiana in voga nella Salisburgo dell’epoca (è curioso che nel gruppo delle grandi Sinfonie mozartiane solo altre due condividano la stessa suddivisione, ossia la Parigi e la Praga). Ecco che la bacchetta di Fischer rievoca l’illusione di quel “mondo di ieri”: i trilli, le appoggiature, le galanterie - eseguiti dall’orchestra con una precisione micidiale - non sono più mero ornamento ma entrano in rapporto dialettico con le solennità da ouverture, con gli scoppi improvvisi che ricordano da vicino le Sonate da chiesa, concorrendo a ricreare l’immagine di quella provinciale Salisburgo che il ventiquattrenne Mozart si apprestava ad abbandonare. Ma la direzione di Fischer scava ancor più in profondità, oltre a nostalgie e manierismi questa Sinfonia porta in nuce molte delle innovazioni che si manifesteranno di lì a poco nella penna di Mozart: sono più che concrete le avvisaglie di quel che sarà l’Idomeneo, così come sono evidenti le ricerche timbriche (i raddoppi caratteristici, i passaggi con le viole divise). In un’esecuzione impeccabile e coinvolgente ha brillato l’Orchestra del Maggio, eccellente per pulizia e precisione, e la visione perfetta di Fischer, capace di restituire al pubblico il lavoro sinfonico con una nitidezza senza pari.
Una visione e una conoscenza pressoché totale di ciò che dirige è la cifra stilistica di Iván Fischer, un aspetto che è emerso anche in uno dei lavori più frequentati dal direttore ungherese: la Sinfonia n. 7 di Dvořák. Germinato nel solco di Brahms, è il progetto sinfonico più ambizioso del compositore delle Danze slave, in cui l’obiettivo è trovare un equilibrio tra il materiale folkloristico slavo e una solida struttura formale. È proprio qui che vibra la forza di Fischer: a un mese dall’aver compiuto settant’anni irrompe sul palco del Maggio con un Dvořák esplosivo, la sua direzione è talmente energica e coinvolgente da donare nuovo vigore alla stessa orchestra. Un vigore e un’energia che però non vanno a discapito della nitidezza ammirata in Mozart: persino nella scrittura densa del compositore boemo è possibile distinguere senza sforzo ogni linea, ogni procedimento, senza che questo vada a inficiare la compattezza di una massa orchestrale imponente. Quando Hans von Bülow diresse questa stessa Sinfonia nel 1889, colpì Dvořák a tal punto da includere un ritratto del direttore nell’edizione a stampa della partitura con sotto queste parole: «Che Lei sia lodato! Lei ha portato alla vita il mio lavoro!». Non è difficile immaginare un’analoga dimostrazione di entusiasmo per l’esecuzione di Iván Fischer.
È davvero un peccato che, al termine dell’Allegro conclusivo non ci fosse un pubblico a salutare degnamente un’esecuzione simile, che gli unici applausi fossero quelli dei pochi addetti ai lavori presenti.