L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Bach alla fine del tempo

di Roberta Pedrotti

Mentre i teatri riaprono, non dimentichiamo le testimonianze di chi ha continuato a far musica a porte chiuse. Fra questi, l'interessante rassegna Intorno al preludio proposta dalla GOG Giovine Orchestra Genovese.

Siamo sul confine. Prime aperture, ultimi streaming a porte chiuse. Poi, non sarà certo un male se le trasmissioni web - che esistevano anche prima della pandemia - continueranno a potenziarsi e a raggiungere un pubblico sempre più vasto. Né sarà un male conservare questi archivi per ricordare quel che è successo, la tragedia e la reazione, per conoscere non solo le grandi istituzioni internazionali e quelle più vicine e raggiungibili fisicamente, ma anche tante realtà che costituiscono il tessuto connettivo del mondo musicale. 

C’è, per esempio, a Genova la Goc, Giovine Orchestra Genovese, che ha organizzato un programma tutt’altro che banale dal titolo Intorno al Preludio. I concerti sono registrati nella parrocchia gentilizia di San Luca e al Teatro Carlo Felice: soprattutto quest’ultimo, il teatro-piazza con il suo vuoto vertiginoso, impressione lo spettatore e - immaginiamo - gli esecutori, testimone muto dei tempi. E dalla fine dei tempi parte una sorta di spirale di Fibonacci il nostro percorso ideale nei concerti “intorno al Preludio”, senza seguire la cronologia della trasmissione. Il Quatour pour la fin du temps di Messiaen, sorto dal più cupo abisso creato dall’uomo contro l’uomo, già con il suo organico irregolare, d’emergenza (violino, violoncello, clarinetto e pianoforte) suggerisce quella che sarà un’idea di suono e di tempo che lo stesso compositore riferì “alla fine delle nozioni di passato e di avvenire, ovvero con l'inizio dell'eternità", quindi all’Apocalisse non tanto e non solo come fine del mondo, ma anche e soprattutto etimologicamente come Rivelazione. Rivelazione e ricerca delle origini e dell’essenza al di là di ogni consuetudine e struttura precostituita. Un mondo altro, ideale e concreto, sorto dal dolore e quindi terribilmente attuale, come suggerisce anche la bella interpretazione dell’Ensemble Eutopia (Corinna Canzian violino, Marco Dell'Acqua violoncello, Yoshua Fortunato clarinetto, Valentina Messa pianoforte), capace di coniugare pathos e trascendenza.

La spirale si stringe se passiamo al pianista Lukas Geniušas, con cui si arriva al preludio vero e proprio, con i primi tre dall’op. 32 di Rachmaninov seguiti da sette dei ventiquattro preludi Song of Bukovina di Leonid Desyatnikov (classe 1955) e dalla Sonata n. 1 in re minore op. 28 sempre di Rachmaninov. Il piglio energico, assertivo di Geniušas spazza subito via ogni manierismo e retorica tardoromantica per connettere il classico al contemporaneo: l’incisività della definizione ritmica sottesa all’invenzione dell’uno si riflette allora nell’altro come collante di un materiale parcellizzato in cellule reiterate e aromi swing, senza che mai il vigore travolga l’interpretazione, in cui si apprezza la capacità di rarefare mantenendo - e non è un ossimoro - la densità, il corpo del suono, così come l’agilità del tocco. Poi, ancora, preludi: il classicissimo Chopin, con i ventiquattro Preludi op. 28; Frank con il Prélude, Aria et Final, il Novecento di Gershwin e dei suoi Three preludes. Cristiano Burato ne cesella la raffinata cantabilità con un fraseggio soppesato ad arte nel legato, dal delicato ma deciso trascolorare di tinte chopiniane alla sapida verve jazzistica di Gershwin, in cui con il brillante virtuosismo si esalta in massimo grado anche il dominio agogico e dinamico.

Preludio, metro, ritmo, accento. E colore e canto. La spirale si stringe e arriva a Bach, l’origine di tutto, come una particella primordiale omnicomprensiva e caleidoscopica. La spirale ora coincide con la cronologia: il primo e l’ultimo concerto sono entrambi dedicati all’Arte della fuga, il secondo libro del Clavicembalo ben temperato sta al centro, quarto in un calendario di sei concerti. Simmetrie e divergenze, spirali: la matematica, d’altra parte, sta alla base della poesia di Bach e della sua trascendenza, qui ben rappresentata da due diversi pianisti e da una trasposizione dalla tastiera all’ensemble, da strumenti moderni e archi storicamente informati. Bach può essere tutto questo, e di più, oltre quel tempo tradizionalmente inteso che Messiaen intendeva finito. 

Con il secondo libro Clavicembalo ben temperato c’è Andrea Bacchetti, che sempre negli streaming a porte chiuse di questi ultimi mesi abbiamo visto impegnato nello stesso programma anche per il Politecnico di Torino (benemerite le istituzioni non musicali attente alla musica!). Il pianoforte non scimmiotta la corda pizzicata, ma pure nel tocco e nella gestione del pedale si avverte un’attenzione particolare verso una dimensione, se vogliamo, cembalistica, se per tale si intende la netta brillantezza della singola nota nell’architettura contrappuntistica. Quindi, in buona sostanza, si porta alla ribalta l’idea, l’architettura, il pensiero che informa l’esplorazione delle possibilità del sistema equabile senza che la speculazione diventi arida esposizione dottrinale: tutt’altro, ché proprio in questo scintillante intreccio di linee melodiche, in questa multidimensionalità di pensiero si eleva la poesia di Bach, perfino un’idea di canto che trascende sé stesso.

Il bello è poi che, con L’arte della fuga, un altro Bach al pianoforte suona diversissimo, ma non contrastante, bensì complementare. Filippo Gorini accarezza i tasti con morbidezza pensosa, lascia più libertà alle corde, come se la polifonia ricordasse una profondità d’organo. Così, l’impressione al primo impatto è quasi che si parta dal canto, dal suono nel quale, in filigrana, l’accento fa emergere l’intreccio di più voci. Più voci organizzate per essere una e molteplice, arrotondata, levigata nel timbro, ma pure ricca, semplice nella complessità che esprime. L’espansione dalla tastiera, dall’esecutore unico della polifonia si esplica infine nella distribuzione alla comunità organizzata e unita dal contrappunto. Ecco, sempre con L'arte della fuga, un altro Bach, musica idiomatica quanto assoluta, cucita sullo strumento e pronta a passare ad affini (da tastiera a tastiera, seppur con meccanica diversa) o a collettivi alternativi, o ancora astratta da ogni legame fisico con un mezzo, pronta a incarnarsi con diversi aspetti senza tradire la propria identità trascendente. C’è l’Accademia Strumentale Italiana (Rossella Croce violino, Claudia Pasetto viola da gamba tenore, Paolo Biordi viola da gamba bassa, Patxi Montero violone, Luca Guglielmi organo) con la direzione di Alberto Rasi alla viola da gamba soprano per far respirare il senso di condivisione che è alla base stessa del contrappunto, della scrittura a più voci affidata in primo luogo al diletto degli esecutori, di cui regola i rapporti. La particella originaria omnicomprensiva pensata dal singolo in diverse angolazioni diventa già sistema, costellazione, microcosmo sociale di timbri omologhi ma distinti, arcate taglienti o soffici, intime e ricche nelle loro singolarità indissolubilmente intrecciate, nell’ampliarsi e restringersi dell’organico a seconda delle esigenze di ogni fuga o canone. La qualità di tutti gli strumentisti non fa che esaltare la vitalità multiforme e la civiltà profonda della scrittura bachiana. Il vertice della spirale, fra questi tre Bach non si può dire qual sia, uno e trino, ma certo in questa speculare contrazione nel singolo e nel dispiegarsi nel molteplice ritorniamo all’interrogativo iniziale, alla ricerca di una rivelazione al di là del tempo.

 


 

 

 
 
 

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