L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

I cicli delle ombre

di Luigi Raso

Con Dallapiccola e Strauss Juraj Valčuha torna sul podio del Teatro di San Carlo in un concerto che segna anche il felicissimo debutto nel Massimo partenopeo del soprano Lise Davidsen.

Affine soltanto per titolo, organico orchestrale ridotto e concezione cameristica alla Serenata in Sol maggiore K 525 di Wolfgang Amadeus Mozart, la celeberrima Eine kleine Nachtmusik, Piccola musica notturna (1954) di Dallapiccola è una successione di suggestioni sonore, oniriche, rarefatte come la notte in Una noche de verano (Una notte d’estate), poesia di Antonio Machado che ispira la breve partitura dedicata a un gigante della direzione d’orchestra, Hermann Scherchen, il quale, a metà anni ’50, prodigava molta energia nella diffusione della musica contemporanea.

Suggestioni notturne atemporali, atmosfere sospese, colori plumbei e armonie sferzanti, qualche decisa dissonanza sono dunque gli elementi sui quali si fonda il lavoro di Dallapiccola, che trova nella lettura di Juraj Valčuha e dell’Orchestra del San Carlo attentissimi esecutori, precisi nel tradurre in suoni le tante indicazioni esecutive di bisbigliando, leggerissimo, misterioso di cui è disseminata la partitura.

Analitico come sempre, e soprattutto come quando si approccia all’amato repertorio novecentesco, Valčuha indaga nelle pieghe della partitura alla ricerca dell’effetto più nascosto e della dinamica più cesellata, viatici e introduzioni all’articolato mondo sonoro dei successivi brani in programmi, entrambi di Richard Strauss.

Il Richard Strauss che tra il 1946 e il 1948 compone i Vier letzte Lieder è un uomo che vede la Nera Signora avvicinarsi verso di lui: morirà infatti nel 1949.

Dominati da un tono crepuscolare e dalla placida accettazione della fine incipiente, questi brani segnano il ripercorrere del ciclo naturale della vita. Strauss si congeda dal mondo con questa intensa e lirica raccolta di Lieder (il cui appellativo di ultimi è stato attribuito dall’editore, non dal compositore), dalla concezione quasi intimistica, malgrado il folto organico orchestrale.

La riproposta al Teatro San Carlo dei Quattro ultimi Lieder ci dà la possibilità di ascoltare per la prima volta a Napoli la meravigliosa voce di Lise Davidsen, giovane soprano norvegese dotato di voce torrenziale, dal bellissimo colore tendente al brunito, strabiliante per rotondità, ricchezza di armonici e volume. Eppure, a stupire ancor di più è la capacità della Davidsen di governare, assottigliando incredibilmente l’emissione, una linea di canto naturalmente debordante: ed è grazie a una tecnica perfetta, alla spiccatissima musicalità dell’interprete, allo scavo nello spartito finalizzato a rendere efficacemente ogni segno di espressione che la lettura del soprano norvegese si impone per lirismo, incisività, duttilità d’accenti nel corso dei quattro Lieder. Ci emoziona e ci seduce questa lettura così scavata, quasi tormentata, che nel suo fluire sa alimentare l’ansia per la trasfigurazione finale di Im Abendrot.

Se Frühling, - su testo,come i successivi September  e Beim Schlafengehen, di Hermann Hesse - si colora di una tinta sonora luminosa, l’atmosfera si increspa e incupisce sin dal secondo Lied, September: la Davidsen inizia quel dialogo, ora sommesso, ora più incisivo, con l’orchestra modulando con spontaneità la colonna di suono emessa dal proprio perfetto strumento vocale (soltanto piuttosto esangue nel registro grave, se proprio si vuol trovare il pelo nell’uovo), adattandolo all’atmosfera della singola composizione, in un alternando di crescendo, pianissimi, forte, decrescendo che scavano e vivisezionano testo musicale e poetico, pur senza mai prosciugare la linfa vitale che lentamente scorre nell’intero ciclo vocale.

È un dialogo sussurrato – uno dei momenti più intensi dell’intera serata – quello tra l’ottimo primo violino di spalla di Cecilia Laca, la Davidsen e l’orchestra in Beim Schlafengehen, laddove l’assolo del violino, sviluppando e citando una microcellula tematica del sublime terzetto conclusivo de Der Rosenkavalier, apre la strada all’intenso Und die Seele, unbewacht, / Will in freien Flügeln schweben,/ Um im Zauberkreis der Nacht / Tief und tausendfach zu leben (E la mia anima indifesa vuol librarsi alta nell’aria per vivere profondamente e sotto mille aspetti nel cerchio magico della notte. Trad. di Luigi Bellingardi).

Liberatorio e consolatorio è, pur con il dubbio finale espresso con Ist dies etwa der Tod? (È questa forse la morte?), Im Abendrot, il Lied conclusivo: Valčuha, l’orchestra e la Davidsen raggiungo il momento più “trasfigurativo” della serata: atmosfera rarefatta e colore crepuscolare, ma a dominare è il senso di serenità laboriosamente conquistata.

L’orchestra, in ottima forma, precisa, duttile e attenta alle esigenze del canto, accarezza il canto della Davidsen, come a suggerirle come incendiare e a distendere la sua strabiliante vocalità.

Se Richard Strauss tra il 1946 e il 1948, gli anni della composizione dei Vier letzte Lieder, è un uomo che “sente” l’avvicinarsi della morte, quello venticinquenne del 1889 è un ragazzo che per età anagrafica può permettersi ancora il lusso di “immaginare”, suggestionato da una poesia di Alexander Ritter, la lotta di un ammalato con la morte, la sua riflessione sulla vita ormai agli sgoccioli. Il programma del poema sinfonico Tod und Verklärung è per Richard Strauss l’occasione sfoggiare ispirazione musicale fluente, che procede per contrasti drammatici, e, in particolare, la maestria di fine orchestratore. Ed è proprio questo uno dei terreni di elezione per un direttore come Juraj Valčuha: dominatore sicuro della compagine orchestrale, il suo approccio denota l’analiticità dello studio del testo, finalizzato ad esaltare proprio quei contrasti tra i momenti lirici della partitura e quelli corruschi, dal colore e dal sapore torbido.

Una lettura quanto mai mobile, frastagliata, ma pur sempre cementata da una coerenza e da una tensione interna inestinguibile del discorso musicale, che sfocia nella luminosità e nel lirismo compiaciuto del tema della Verklärung finale, nel quale si ricompongono e rasserenano i conflitti che hanno percorso le quattro sezioni della partitura.

L’orchestra e il suo direttore musicale sono perfette nel tradurre in florilegio sonoro la complessa orchestrazione di Strauss, con quella varietà di colori, accenti e quel lento, progressivo e in crescendo inturgidimento del lirismo proprio del tema finale. Tod und Verklärung, così come Vier letzte Lieder, conferma la sua natura di opera ciclica,  sfociante in una visione di conquistata e rasserenante contemplazione della trasfigurazione.

Gli applausi finali, dopo questa visione, ci fanno di colpo precipitare con i piedi per terra.

Successo meritato e convinto da parte dei un pubblico purtroppo non folto; per caratura degli interpreti, interesse e complessità dei brani in programma e pregio dell’esecuzione sicuramente uno tra i concerti più interessanti e raffinati della Stagione sinfonica, inspiegabilmente disertato da gran parte del pubblico abituale del San Carlo.


 

 

 
 
 

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