Indagini sul Novecento
di Alberto Ponti
Nonostante il poco pubblico in sala, la coppia di protagonisti entusiasma in due pezzi di grande fascino e interesse della prima metà del secolo scorso
TORINO, 21 gennaio 2022 - Il concerto per violino in re minore (1940) di Aram Khachaturian (1903-1978) è un'opera che richiede, oltre a un solista virtuoso, un'orchestra di alto livello e un direttore trascinante. Tutti questi elementi sono stati presenti nelle due serate del 20 e 21 gennaio, grazie a Juraj Valčuha sul podio dei complessi Rai a fianco del solista Valeriy Sokolov. Nato in Ucraina nel 1986, nessuna parentela col celebre pianista, Sokolov possiede una personalità indiscutibile e completa che lo porta a recitare il ruolo da protagonista di peso nell'impegnativo lavoro, composto a suo tempo nientemeno che per David Oistrakh. La sua interpretazione è sotto ogni aspetto superba, l'intonazione è eccellente, sostenuta da un suono terso, pungente quando necessario e teatrale, tutte caratteristiche necessarie alla resa della scrittura istrionica di Khachaturian, estroversa anche nei momenti più meditativi. La varietà di fraseggio del violinista si riverbera in una naturale caleidoscopio di sfaccettature nelle due anime che si alternano nell'ampio Allegro con fermezza (sic) iniziale, dagli sfrenati accenti danzanti del primo tema al lirismo accorato dell'idea contrapposta, caratteristiche destinate a ripetersi nell'op. 6 di Fritz Kreisler (Recitativo e Scherzo) proposta come bis. Pure l'Andante sostenuto gioca su un medesimo abbandono al piacere del canto, tipico di tante scene dei balletti Gayane e Spartacus, alternato a passaggi dal vigore ritmico più pulsante e inquieto. Il finale (Allegro vivace) è la pagina meglio riuscita del concerto: deposte alcune lungaggini che appesantiscono i due movimenti precedenti domina qui un'essenziale immediatezza comunicativa dove tutte le risorse tecniche del virtuoso sono messe a dura prova all'interno di un quadro di ricercata sapienza costruttiva e di eleganza formale estrema. La voce di Sokolov balza in primo piano dove necessario, si accende come una fiamma di brillante intensità in una cavalcata di velocità vertiginosa, per rintanarsi all'improvviso lasciando spazio al robusto discorso sinfonico di un'orchestra che sotto la bacchetta di Valčuha anticipa, chiosa, ammicca sottobanco contrappuntando gli slanci conduttori di una musica solo in apparenza 'facile' nell'amabilità del suo gesto.
Le capacità di concertatore del maestro slovacco, sempre molto legato a Torino dopo gli anni tra il 2009 e il 2016 passati come direttore principale dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, tornano prepotentemente in luce nella Sinfonia n. 4 op.29 (Inestinguibile), composta tra il 1914 e il 1916 dal danese Carl Nielsen (1865-1931). Molto si è scritto su Nielsen, soprattutto dopo l'entrata stabile nel repertorio di questo e altri lavori per opera di direttori quali Bernstein e Karajan. Ciò che ancora oggi colpisce, a distanza di oltre un secolo dalla nascita della sinfonia, è il linguaggio del tutto anticonvenzionale dell'autore. E' difficile trovare un equivalente di Nielsen nel panorama della sua epoca. Esistono compositori più radicali nel linguaggio, ma a colpire in questa musica è l'originalità del procedere, l'imprevedibilità assoluta di un discorso che continua a stupire ad un ascolto ripetuto come se fosse il primo. Non vi è una sola battuta, nella misteriosa Inestinguibile, di cui si possa prevedere lo sviluppo nella successiva. Anzi, a ben guardare la partitura, ci si trova davanti a un coacervo di bizzarrie timbriche, armoniche e ritmiche che, prese singolarmente, sarebbero inspiegabili ma alla fine, inserite senza soluzione di continuità nel quadro del vasto affresco, hanno una loro rude bellezza e si rivelano fondamentali per la comprensione della pagina nel suo complesso. Merito di Valčuha è restituire alla platea, senza compromessi ed edulcorazioni, tutte le geniali antinomie tra brutalità e dolcezza che costituiscono il tratto evidente della scrittura di Nielsen. Si giustificano così, senza timore di apparire troppo irruento, non solo le violente scariche dei timpani nei movimenti estremi, per cui la sinfonia è fin troppo celebre, ma anche le urla rauche degli ottoni, le tenerezze dei legni nel Poco allegretto, e il piglio eroico del tempo lento in terza posizione, capace di tenere col fiato sospeso per dieci minuti che danno l'illusione dell'infinito. Composta allo scoccare della prima guerra mondiale, la sinfonia parrebbe, nel brusco incedere dei tempi veloci, risentire degli echi della tragedia bellica ma il messaggio finale rimane di vitalistico ottimismo. In tali contraddizioni, a ben vedere proprie di ciascuna persona, risiede forse la poetica di Nielsen. Potrebbe adattarsi a lui quello che Victor Hugo scrive in un memorabile passo de Les Misérables paragonandone il protagonista a uomini come Goethe e Napoleone che potevano avere sotto i loro occhi tutte le miserie del mondo ma ai quali bastava una bella giornata di sole per avere nel mondo una fiducia illimitata.
Successo meritato e trionfale ad opera di un pubblico purtroppo molto scarso, nella serata di venerdì addirittura al di sotto di quello cui eravamo abituati agli ingressi contingentati di qualche mese fa, anche ora in cui sono state rimosse molte limitazioni all'ingresso in sala.
Vorrei sul punto compiere, in via eccezionale, alcune considerazioni personali. L'Orchestra Sinfonica Nazionale può permettersi l'iniziativa encomiabile, con ben pochi equivalenti in Italia, di proporre in stagione anche programmi al di fuori del grandissimo e corrente repertorio con interpreti di primo piano. Sokolov e Valčuha, prossimo Music Director della Houston Symphony, frequentano le più prestigiose sale di concerto al mondo. Nonostante questo, induce a riflettere il fatto che, dopo il concerto di Khachaturian, una consistente parte della platea abbia abbandonato la sala, rifiutando di ascoltare non il pezzo di un ventenne di oggi (che il sottoscritto considererebbe allo stesso modo un delitto!) ma l'opera di un autore scomparso nel 1931! Che è ben lontana dall'essere sconosciuta e gode di una lista di incisioni assai corposa.
Non credo che, al di là di predilezioni e gusti personali, chi apprezza Bach, Beethoven o Verdi non possa apprezzare allo stesso modo Nielsen o Khachaturian. E' vero che si ama ciò che si conosce ma penso che chi non ami i secondi non ami in fondo nemmeno i primi. Il discorso è piuttosto di natura culturale. Quanto si fa, anche all'interno di quella nicchia molto ristretta rispetto al pubblico dei concerti che sono i luoghi di formazione dei musicisti, per ampliare la visione al di fuori del canone degli autori tradizionali, che ha comunque importanza basilare? Certo gli sforzi di oggi sono maggiori di qualche decennio fa, a giudicare dai giovani interpreti che affrontano con entusiasmo il mondo moderno e contemporaneo. Tuttavia ritengo si possa ancora migliorare. E, in secondo luogo, al di là del discorso squisitamente tecnico o esecutivo, esiste un'adeguata volontà di fornire una conoscenza approfondita sulla storia della musica e la sua evoluzione? Non sarà la norma, ma ho sentito diplomandi in pianoforte avere idee molto confuse sul resto dell'opera di Beethoven, escludendo le due o tre sonate che era capitato loro di studiare ed eseguire.
E, passando all'educazione musicale media del cittadino che si considera colto (quello cioè che acquista e legge cinque o sei libri all'anno e si reca ogni tanto a qualche mostra d'arte), quale incoraggiamento potrà mai dare un'istruzione ricevuta in una scuola secondaria superiore dove la storia della musica non è considerata materia degna di studio nemmeno nei licei? Potremmo al più contare sulla passione personale di alcuni docenti appassionati o sugli stimoli provenienti, dove presenti, dalla famiglia. Si ripropone l'eterno leitmotiv di questa nazione straordinaria eppure sottovalutata dai suoi stessi abitanti, che sopravvive grazie a una sola formula: talento individuale e nessuna organizzazione alle spalle.
Tutto oggi è business e anche chi fa musica, soprattutto coloro che sono costretti a sopravvivere in base ai biglietti venduti, deve tenere conto dell'inesorabile legge della domanda e dell'offerta. Ma se stessimo ad eseguire sempre e solo quello che l'ascoltatore medio vuole ascoltare avremmo un repertorio sinfonico limitato a un centinaio di pezzi, per non parlare del teatro d'opera e della musica da camera dove i titoli sarebbero ancor meno. Per questo motivo ritengo che un'occasione come quella fornita da molti concerti dell'OSN Rai, lungi dall'essere disertata, dovrebbe essere presa al volo dal pubblico che gravita intorno a una città come Torino che si vanta, giustamente, di essere uno dei capoluoghi culturali del paese.
Non vorrei però ripetermi o ripetere luoghi comuni già risaputi, per cui non approfitto oltre della pazienza dei pochi lettori che mi abbiano seguito fin qui.