Trascendenze viennesi, cannoni russi
di Alberto Ponti
Il ritorno all’auditorium Toscanini del giovane inglese Alpesh Chauhan coincide con una intensa e sentita esecuzione di due caposaldi sinfonici di Anton Webern e Alban Berg. Meno riuscita la lettura della muscolosa Quinta sinfonia di Sergej Prokof’ev
TORINI, 1 aprile 2022 - Un programma vario e complesso segna il ritorno del maestro Alpesh Chauhan alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale. Ce lo ricordavamo nella primavera 2019, in chiusura dell’ultima stagione completa prima della pandemia, nel Concerto di Dvořák (solista Mario Brunello) e in una non indimenticabile Quinta di Šostakovič .
L’impaginato della serata del 30 marzo, in replica il 1° aprile, si apre con la Passacaglia op. 1 di Anton Webern (1883-1945). Datata 1908, la composizione prescrive uno degli organici più ampi utilizzati dall’autore e segna il culmine della sua esperienza di studio, formazione e meditazione sui grandi nomi della tradizione classica prima della brusca virata atonale. Investito da Webern del simbolico peso di opus primum, il pezzo guarda solidamente verso il passato, lo conferma la scelta della forma, con una sensibilità tuttavia già moderna nella ricerca di un suono distillato ed essenziale, evidente nel trattamento della scrittura, spesso per singoli gruppi di strumenti nonostante l’impiego della grande orchestra. Non mancano momenti di enfasi tardo romantica in una partitura nel complesso improntata a un rigore quasi matematico. Chauhan ha buon gioco nello scindere le 24 variazioni attraverso le quali si snoda il lavoro con un acuto senso analitico e un’esemplare chiarezza nel risultato. Scelta del tempo, cura dell’impasto timbrico, tensione nel fraseggio, attenzione alle minime sottigliezze dinamiche creano un effetto di sontuosa parsimonia, di drammatica e tesa poesia che il giovane direttore britannico trasmette a un uditorio rapito da tanta chirurgica bellezza.
Si tende spesso, in altri contesti, a sovraccaricare questa musica di spiriti e significati mahleriani ma in realtà, se si eccettuano alcune soluzioni armoniche, ben poco rimane degli stilemi del musicista più anziano, certo ammiratissimo anche da Webern, ma la cui influenza è maggiormente avvertibile nella coeva produzione di Arnold Schoenberg e Alban Berg.
E proprio il concerto per violino ‘Alla memoria di un angelo’ (1935) di Berg è il successivo banco di prova affrontato da Chauhan, insieme alla giovane solista tedesca Veronika Eberle. Dedicato a Manon Gropius, figlia di Alma Schindler e del celebre architetto, il concerto è una sorta di testamento spirituale dello stesso compositore, scomparso poco dopo aver terminato la partitura. Il connubio tra i due interpreti è di particolare intensità, con esiti di alto livello sia nella parte del violino, di notevole difficoltà anche se poco spettacolare, sia nell’accompagnamento orchestrale, denso di significati e mai in subordine. Un’estrema pulizia del suono caratterizza l’esecuzione da capo a fondo, nella terse e vertiginose altezze raggiunte dalla Eberle nell’Allegretto che conclude la prima parte, con un’ammirevole tenuta e senza dare mai l’impressione di avere il respiro corto, così come nelle rabbiose impennate degli ottoni nel successivo Allegro, in virtuosistico dialogo con le frasi spezzate del violino, la cui forma è sbozzata da Chauhan con asciutta esattezza ed istintivo dominio della materia sonora. La luminosa tecnica (confermata anche nel bis con il tempo lento della sonata op. 115 di Prokof’ev) della concertista classe 1988, al suo debutto con l’Orchestra Rai, dà il meglio di sé nelle parti estreme dell’opera, dolenti e meditative, ma di un dolore trasfigurato che nulla più ha da spartire con la tragedia terrena. La superba orchestrazione berghiana, discreta e prorompente, struggente e spietata, è intrisa di preziosi spunti, colti dal podio con giusta puntualità. Il controcanto dei clarinetti sulla citazione del corale di Bach ‘Es ist genug’ in apertura dell’ultima sezione sembra emergere da un’altra dimensione e l’atmosfera sospesa e raccolta con cui si chiude lo stupefacente lavoro tiene in sospeso per un lungo istante, come nelle migliori esecuzioni, l’applauso di un pubblico partecipe e impressionato.
È nella Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore op. 100 (1944) di Sergej Prokof’ev che l’indubbia maestria dimostrata da Chauhan nella prima parte della serata perde un po’ del suo smalto. Forse il direttore con un certo tipo di autori russi non è sul suo terreno di elezione ma ci troviamo in numerosi punti, come nella Quinta di Šostakovič ascoltata tre anni fa, davanti alla mancanza di un’ipotesi di lettura personale. La conoscenza degli strumenti, da parte di un ex violoncellista che sa cosa significhi sedersi in orchestra, rimane indiscutibile e il serio lavoro di preparazione sul testo musicale si sente eccome. Il virtuosismo addirittura rapinoso di molti passaggi non vale però da solo a riscattare un’interpretazione eccessivamente giocata sulle sonorità magniloquenti, ai limiti del fastidioso nel finale del primo movimento, carico di una platealità che a mio parere stride con le intenzioni di Prokof’ev, non drammatiche a tal punto, nonostante si fosse in tempo di guerra, in un’opera che, sue stesse famose parole, intendeva essere ‘un inno all’uomo libero e felice, alla sua forza poderosa, al suo spirito puro e nobile’. Anche il contrasto tra le sonorità, che ci aveva comunque impressionato in Šostakovič, è risolto in questa occasione con un appiattimento verso l’alto della gamma dinamica, dove il piano e il pianissimo (invero ammirevoli nel precedente concerto di Berg) tendono spesso ad andare nella direzione di un uniforme e battagliero mezzoforte. L’Allegro marcato è forse, dei quattro, il movimento più riuscito nella serata torinese, con una buona circolazione delle sue irresistibili idee musicali tra le diverse voci dell’orchestra. Non altrettanto può dirsi del successivo Adagio dove il lirico e magnifico seconda tema rimane strozzato sul nascere nelle profondità dei bassi che non riescono ad emergere sotto il martellante accompagnamento di clarinetti, arpa e pianoforte. La valida e attenta performance dell’orchestra garantisce il successo di fronte a un pezzo arduo, geniale e poderoso, con un finale (Allegro giocoso) corretto ma, nonostante i mobili balzi sul podio da parte di Chauhan, con la consueta patina di distacco e impersonalità che rimane il peccato originale di tutta la sinfonia. Pubblico in ogni caso soddisfatto e riconoscente per l’impegno di un programma che soprattutto nella prima parte ha avuto il suo climax emotivo.