L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Le passioni di Kat’a

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma porta per la prima volta in scena Kát’a Kabanová di Leoš Janáček, in uno spettacolo in coproduzione con il Covent Garden di Londra, una bella regia a firma di Richard Jones. L’orchestra dell’Opera di Roma è diretta da David Robertson; il cast dei cantanti, fra cui spicca Corinne Winters nel ruolo del titolo, è tutto di altissimo livello.

ROMA, 21 gennaio 2022 – La prima opera del nuovo anno solare nel cartellone del Costanzi è Kát’a Kabanová di Leoš Janáček; si tratta di una première assoluta per il Teatro dell’Opera di Roma, giacché di Janáček era stata rappresentata (nel 1952 e nel 1976) solamente la Jenůfa. L’opera è musicalmente ispirata (come tutto il teatro di Janáček) e, pur essendo cantata in cèco, è resa fruibile – oltre che dagli immancabili (ma qui realmente necessari) sottotitoli – anche da una regia non solo chiara ed attenta, ma anche spettacolare. C’è anche da dire che il linguaggio musicale di Janáček è talmente limpido, ma al contempo sensuale, quasi sanguigno, da bastare a sé stante per far arrivare anche il testo al pubblico.

L’allestimento presentato all’Opera di Roma, in coproduzione con il Covent Garden, è quello firmato da Richard Jones. Regista particolarmente attento a scontornare i movimenti dei personaggi e delle comparse, come pure dei blocchi scenici, Jones ha il merito di proporre una visione particolarmente cristallina, atta cioè a rendere ben intelligibili gli snodi della trama, senza però tralasciare elementi di pura evocazione. L’intelligibilità della regia, in un’opera come Kát’a Kabanová, è quanto mai necessaria, considerato che la maggior parte del pubblico non può considerarsi intima con il repertorio di Janáček. L’opera è visivamente calata, soprattutto nei costumi, in un’atmosfera da anni ’70; abbondano abiti tipicamente borghesi, mai vistosi: la palette cromatica creata dalle luci, dai fondali e dai costumi, che ruota attorno all’ocra, diviene la base per una sfilata di costumi e comparse che ingrigiscono lo sguardo e devono riempire l’orizzonte visivo dello spettatore. Jones apre la regia con una scena che rimanda direttamente al finale e sintetizza lo spirito di Kát’a Kabanová: la protagonista è seduta su una panchina ed è circondata da una folla indistinta, che la osserva silenziosamente. Jones, infatti, calca opportunamente la mano, nello sviluppare la sua regia, sulla progressiva emarginazione di Kát’a, che la porterà al suicidio. Tale scena iniziale (sulle strazianti note del preludio) si riverbera in Ringkomposition nel finale, dove Kát’a, proprio dalla medesima panchina, si getta nel Volga. La scena del suicidio è fra le più spettacolari dell’intera regia. Kát’a, in piedi sulla panchina, viene velocemente circondata da una massa di comparse che la afferrano mentre finge di gettarsi; Jones ha reso visivamente il suicidio di Kát’a metaforizzando le acque del Volga, che inghiottono la protagonista, nel turbinio di persone che l’avevano giudicata e, dunque, di fatto uccisa. La scena è così ben concertata che avviene in un brevissimo lasso di tempo e lascia stupefatti. Jones, del resto, ama particolarmente muovere masse di persone per rendere l’idea di uno spazio aperto, ove, invece, ci si trova delimitati entro una sorta di cubo ligneo dove ruota tutta la regia. La medesima tecnica è usata nel I quadro dell’atto III, dove persone vanno e vengono sul palco a simulare la concitazione generale per un brutto temporale (che anticipa il ‘temporale’ emotivo della protagonista alla fine dell’atto III). In questo quadro è evidente un’altra tecnica assai ben impiegata da Jones in questa regia: il movimento di blocchi scenici sul palco. Qui è una sorta di stazione che ricorda, vagamente, le ambientazioni di Edward Hopper; nell’originale sarebbe la galleria di un palazzo in rovina, che offre frammenti di sinistri affreschi. Come dicevo, Jones si serve di questa tecnica in maniera spettacolare nei primi due atti. La casa di Kabanov viene infatti rappresentata sia all’interno che all’esterno. Jones crea una parete che rappresenta le due facciate della casa; all’inizio sfrutta quella interna, spostandola fin quasi al proscenio, in modo da limitare i movimenti dei personaggi all’interno, suggerendo così l’oppressione borghese sul corpo e la vita di Kát’a. Quando, poi, la protagonista sceglie di abbandonarsi alla relazione con Boris, la casa viene spostata – con un effetto mozzafiato – verso il fondo del palco e ruotata, a scoprire così l’esterno: luogo naturale degli incontri furtivi d’amore. Insomma, una regia – quella di Jones – che si presenta chiara, mai monotona, ricca di colpi di scena e di trovate assai apprezzabili. Le scene e i costumi sono firmati da Antony MacDonald; le luci da Lucy Carter e le coreografie delle comparse da Sarah Fahie.

Il cast dei cantanti è eccellente. Spicca su tutti la Kát’a di Corinne Winters, non solo interprete compartecipe e raffinata, ma anche attrice di doti non comuni. La Winters si libra sulle note degli ariosi della protagonista con voce svettante, chiara, piena, imprimendosi nella memoria degli spettatori nelle sue due scene di monologo dal II e dal III atto; la dolcezza melanconica del melodiare di Janáček trova nella voce acuta, corposa della Winters un’eccellente interprete. La sua Kát’a, infatti, riceve scrosci di applausi dal pubblico. Stephen Richardson canta un ottimo Dikoj, mostrando voce piena e ampia nella corda del basso; un personaggio, Dikoj, che pone anche notevoli problemi nella recitazione, visto che passa da momenti quasi comici (il dialogo da ubriaco con Kabanicha) a passaggi in cui emerge il suo carattere preponderatamene scontroso. Charles Workman canta un Boris ottimo, soprattutto perché la sua vocalità argentina ed acuta ben si sposa all’ethos del personaggio. Ottima Susan Bickley nel ruolo dell’odiosa e detestabile Kabanicha, la madre di Tichon e cagione del suicidio di Kát’a. Bickley sfrutta tutta la graffiante tessitura di mezzosoprano per dare corpo agli scuri senili e detestabili della voce di questa anziana ed ipocrita donna. Tichon Kabanov è ben interpretato da Julian Hubbard, il quale restituisce sia gli aspetti più lirici della parte che quelli più sottomessi. Straordinaria la Varvara di Carolyn Sproule, sia per presenza scenica che per vivacità nelle corde del canto; egualmente centrato il Váňa di Sam Funess, come testimonia il suo stornello all’inizio del secondo quadro dell’atto II. Tutti i comprimari si distinguono, egualmente, per l’ottimo lavoro.

L’opera è diretta da David Robertson, che fa un lavoro eccellente con l’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma. La partitura di Janáček, ricca di venature melodiche debitrici del più ispirato Čajkovskij (non senza obliare echi wagneriani), screziata di sonorità slave, è letta con estrema perizia da Robertson, attento alle voci ma senza sacrificare le perle nascoste nelle pieghe di una partitura densa, attenta a slittamenti ritmici. Insomma, una partitura da trattare con cura, che viene presentata al pubblico nella versione originale del compositore, come fu ricostruita da Mackerras. Gli applausi finali del pubblico ripagano il lavoro di un’eccellente produzione.


 

 

 
 
 

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