Rossini napoletano
di Luigi Raso
Una riuscita produzione del capolavoro rossiniano, con un cast in cui spiccano gli eccellenti Teresa Iervolino, Carlo Lepore e Vito Priante, mette in luce i legami fra l'opera buffa e la tradizione del teatro partenopeo, fra le dinastie Casaccia e Scarpetta/De Filippo.
Salerno, 27 maggio 2022 - Profuma di teatralità La Cenerentola di Gioachino Rossini in scena al Teatro Giuseppe Verdi di Salerno. Lo spettacolo - nuovo allestimento del Teatro salernitano - è prodotto con la consueta ed evidente cura amorevole che il Teatro Verdi riserva alla sue produzioni; si avvale delle belle e raffinate scene di Alfredo Troisi, autore anche dei ricercati costumi, i quali, insieme alle citazioni architettoniche, ricreano un’ambientazione settecentesca, lontana dal cliché favolistico, ma dominata da un caleidoscopio di colori, di trovate sceniche, cambi di scenografie estremamente efficaci. A Riccardo Canessa è affidata la regia, improntata al garbo, al divertimento, alla cura certosina della recitazione, della mimica facciale di un cast di ottimi attori-cantanti, e al senso diffuso e ben distribuito dei movimenti scenici.
Tra gli equivoci, i travestimenti, lo scambio dei ruoli, le gag, i tanti sorrisi venati di malinconia del dramma giocoso di Ferretti- Rossini si aggirano, rispettose dell’essenza del capolavoro rossiniano, riferimenti e citazioni della tradizione teatrale riconducibile ad Eduardo Scarpetta (1853 - 1925), capostipite di una delle più longeve famiglie teatrali italiane, attivo sulle scene napoletane sin dalla seconda metà dell’800. Quella di Scarpetta fu un’allargata famiglia teatrale, comprendente anche quella dei tre fratelli De Filippo, Titina, Eduardo e Peppino, figli mai riconosciuti dal prolifico commediografo napoletano. Quell’arte teatrale, tramandata di generazione in generazione è tuttora viva e vegeta: Eduardo Scarpetta (classe 1993), discendente diretto dell’omonimo capostipite, ha recentemente vinto il David di Donatello quale miglior attore non protagonista per l’interpretazione dell’avo Vincenzo in quel meraviglioso affresco teatrale - e non solo - che è Qui rido io (2021), film di Mario Martone. Lo stesso Riccardo Canessa, per parte materna, è discendente da un’altra gloriosa famiglia teatrale napoletana, i Carloni, dei quali Adele e Pietro sposarono, rispettivamente, Peppino e Titina De Filippo.
Se è vero che il sangue non è acqua, è agevole spiegarsi perché Riccardo Canessa, così come già evidenziammo in occasione di altrettanto fortunate regie liriche presentate a Salerno (qui le nostre recensioni: Don Pasquale 2017, La fille du regiment 2019 , Cavalleria rusticana e Pagliacci 2021 ) sappia infondere la giusta dose di senso teatrale e comicità agli spettacoli lirici che affronta, farcendoli spesso di citazioni appropriate.
La regia di questa Cenerentola, infatti, svela e indaga quei nessi - non sapremo mai quanto volontari o accidentali - tra il sulfureo teatro giocoso di Rossini e quell’insieme di equivoci, travestimenti, sortite improvvise di personaggi, gag, situazioni oniriche e surrealistiche che si ritrovano nel teatro di Eduardo Scarpetta. Per questa Cenerentola, la miniera principale delle citazioni è Miseria e nobiltà (1887), resa ancor più celebre dall’iconica interpretazione di Totò nell’omonimo film (1954) di Mario Mattioli. E così Dandini ha l’albagia, la parlata da gagà napoletano che il Principe di Casador assume fingendosi - da scrivano squattrinato - nobile.
Rossini e Scarpetta; e poi Totò, altro nume tutelare di questa rivisitazione di Cenerentola. La domanda che ci frulla in testa mentre osserviamo questo gustoso, garbato e divertente spettacolo è: quanto è debitore il teatro di Eduardo Scarpetta al mondo, perennemente in movimento, oscillante sul labile crinale di finzione e realtà, scoppiettante di pulsioni vitalistiche del nostro adoratissimo Gioachino? Qual è il legame fra il mondo rossiniano e quello folle e inverosimile delle commedie scarpettiane e, poi, con quello imbevuto di surrealismo del teatro di rivista di Totò? Il surreale che si fa realtà, la commistione impalpabile tra verosimile e inverosimile, quel moto perpetuo - che in Rossini prende forma nel crepitio ritmico; in Scarpetta e, poi, in Totò, nella mimica facciale e nella gestualità marionettistica - diventano i tratti comuni (si ripete, probabilmente in maniera inconsapevole) di queste diverse e articolate espressione del genio teatrale.
Se in questa produzione il finale dell’Atto I della Cenerentola richiama alla memoria la celebre scena - tanto giocosa quanto tragica - dell’avventarsi sui maccheroni di Felice Sciosciammocca e dei suoi compagni di miseria, il sublime, geniale e ineffabile Sestetto “Questo è un nodo avviluppato” è risolto con trovata registica efficacissima: i cantanti sono chiamati a muoversi a mo’ di marionette, a disarticolare le articolazioni in un chiaro e riuscitissimo omaggio a Totò. Rossini analizza e disarticola la situazione teatrale, Totò il proprio corpo. Forse, quello del Sestetto, ci appare il momento più riuscito di uno spettacolo che si apprezza per la tenuta teatrale, per l’attenzione ai recitativi, alle inflessioni napoletane, sparse nell’opera con la giusta quantità, senza mai cadere nel provincialismo, antico vanto/vizio di taluni nati all’ombra del Vesuvio.
E così, d’accordo con il direttore d’orchestra, la cavatina di Don Magnifico “Miei rampolli femminini”è sostituita dalla versione in lingua napoletana che i Casaccia, famiglia di cantanti e teatranti partenopei, approntavano per le parodie delle opere più famose presentate al Teatro Nuovo di Napoli: una chicca, la cavatina di Don Magnifico in napoletano, per questa ripresa di Cenerentola.
A far da adeguato pendant alla regia sulfurea nei movimenti - vivaddio senza ricorso a inutili mimi, a quella fastidiosa duplicazione dei personaggi in scena, croce senza alcuna delizia di talune regie di opere buffe, e non solo! - è la concertazione di Francesco Ivan Ciampa improntata a tempi tendenzialmente serrati. Al suo debutto nella Cenerentola, il già affermato direttore italiano dimostra di aver un’idea vivida e precisa della drammaturgia musicale della Cenerentola: la sua è una narrazione tesa, che tende a prediligere l’aspetto vitalistico della partitura rispetto a quello elegiaco e lirico; talora Ciampa dà la sensazione di schiacciare, nei concertati e nella stretta del finale dell’Atto I, eccessivamente il piede sull’acceleratore dell’agogica, finendo così per non dar il giusto risalto alle preziosità e agli accenti della partitura. Quella di Ciampa è una lettura accurata, ben innervata dal filo rosso della teatralità, che concatena senza soluzione di continuità le scene musicali tra loro, perfetta nell’assicurare coesione e tenuta tra buca e palcoscenico. L’Orchestra del Teatro Verdi di Salerno è tendenzialmente precisa, dal bel suono e recettiva delle indicazioni del direttore; fa altrettanto bene, notandosi per compattezza sonora, il Coro del Teatro affidato alle cure di Felice Cavaliere.
Il cast vocale è aperto dalla prestazione in chiaroscuro del Don Ramiro di Francisco Brito: tenore in possesso di buoni mezzi vocali, per timbro e volume, purtroppo altrettanto saldi nella tecnica. La fonazione non appare sempre perfettamente a fuoco e, di conseguenza, la prestazione nel complesso appare distaccata, più attenta a risolvere le insidie vocali della parte che a conferire smalto e anima al personaggio.
Vito Priante, presenta a Salerno, dopo averlo interpretato a Vienna, Chicago, Los Angeles, Roma, Parigi, la collaudata parte di Dandini. Da subito si nota quanto quello servitore che si fa principe sia ruolo che gli calzi, vocalmente e teatralmente, a pennello. Quanto al primo aspetto, sin dalla cavatina “Come un'ape nei giorni d'aprile”dimostra di avere acuti, colore vocale, dominio delle colorature, linea di canto nobile e verve teatrale. L’ampia estensione gli permette di dominare la parte, sfoggiare acuti tenorili per squillo e intensità e proiezione; la tecnica, invece, gli consente di fraseggiare con gusto, conferendo la giusta articolazione alla parole, sia nel cantato sianel sillabato e, in particolare, nei recitativi, risolti con varietà d’accenti, inflessione e colori. Quello di Priante è un Dandini maturo, ricco di sfaccettature, dalla linea di canto sempre ben sostenuta, dal fraseggio analitico e articolato. L’interprete, il cantante-attore, è a proprio agio nel disegno registico, nel tessere le trame del dramma giocoso, conferendogli una comicità agrodolce, e mai greve. Esilarante nel duetto con Don Magnifico in “Un segreto d’importanza”, scenicamente e vocalmente efficacissimo in “Zitto zitto, piano piano”,così come nel Sestetto.
Don Magnifico si avvale dell’esperienza e dell’arte scenica di Carlo Lepore, dalla voce profonda, efficacissimo nel scolpire (è il verbo che sembra meglio rendere l’idea) il personaggio del patrigno di Angelina: dizione incisiva, senso della parole, dominio dei recitativi, ottime capacità di attore rendono completa, convincente e apprezzata la prova di uno dei più esperti bassi buffi che calcano le scene liriche, degno erede della nobile tradizione italiana. Si imprime nella memoria, per la fantasia interpretativa e la simpatia che emana, l’aria “Sia qualunque delle figlie”.
Sono un turbine frizzante di verve Tisbe e Clorinda, rispettivamente Rosa Bove e Barbara Massaro: recitano e cantano bene, ben rendendo l’idea di quel pizzico di zitellamma acidula che spargono sull’opera sin dall’inizio: per il corretto significato semantico di zitellamma si rimanda alla plastica definizione che l’attore e drammaturgo Annibale Ruccello (1956 – 1986) ne dà in Ferdinando, facilmente reperibile su YouTube.
Opaca, invece, la prestazione vocale di Tommaso Barea nei panni di Alidoro: emissione ingolfata, voce poco proiettata e interpretazione tendenzialmente anonima; supplisce, per ciò che la parte gli consente, con buone doti d’attore.
Last but not least, la meravigliosa Angelina di Teresa Iervolino. Mezzosoprano affermato e acclamato nel repertorio rossiniano (e non solo), la Iervolino dà vita a un’Angelina vera, schietta; la sua Cenerentola è un personaggio carnale e reale, poco onirico e con i piedi ben piantati per terra. Domina con sicurezza la parte; è a suo agio nelle colorature, così come nei momenti più lirici e estatici: ha dalla sua un timbro intenso, seducente, una tecnica vocale che le consente di affinare, cesellare, controllare con precisione legato e colorature. Il rondò finale è una batteria di fuochi d’artifici posta a coronamento di una prova eccellente.
Anche la Iervolino, come del resto l’intero cast, dimostra di essere perfettamente coinvolta nell’idea registica: interagisce con efficacia scenica con Don Ramiro, con le poco docili e simpatiche sorellastre, con il perfido patrigno. Un’Angelina tra le più convincenti, reali e palpitanti dell’attuale scena lirica, tanto verace nella signorilità scenica e vocale, quanto lontana dall’algido distacco di taluni odierni modelli interpretativi.
A uno spettacolo assemblato con così evidente cura e dedizione non può che tributarsi un convinto e calorosissimo successo. Malgrado l’ora tarda - inspiegabilmente gli spettacoli serali a Salerno iniziano alle ore 21. Troppo tardi! - il pubblico, folto, attento, partecipe e divertito, riserva applausi prolungati.
Terminati gli applausi, la domanda, stavolta finale, che ci frulla nel cèrebro (l’arcaismo è consentito dopo La Cenerentola) è: quanta profondità c’è nella leggerezza? E Rossini, anche stasera, ci ha fornito la sua risposta.