Fra le vette e lo strapiombo
di Sergio Albertini
La delicatissima opera belliniana si avvale della bella concertazione del giovane Diego Ceretta e delle prove di pregio di Gilda Fiume e Antonino Siragusa; non tutto il cast è, però, allo stesso livello e l'allestimento firmato per la regia da Bepi Morassi si pone in bilico fra belle idee ed eccessi.
CAGLIARI 13 maggio 2022 - In origine, c'è La Somnambule, ou L'Arrivée d'un nouveau seigneur, un ballet-pantomime su musica di Louis-Joseph-Ferdinand Hérold su libretto di Eugène Scribe andato in scena all'Opéra di Parigi nel 1827. E poi quel personaggio, tra i primi a disegnare il topos della pazzia per amore, che è Nina (quella di Dalayrac, 1786, ma soprattutto quella di Paisiello, 1789). C'è, quindi, un passato di matrice napoletana, non solo perché Bellini ha studiato presso il Real Collegio di Musica di San Sebastiano a Napoli, ma anche perché nell'opera c'è ancora quel languore, a tratti dolce e malinconico, che richiama proprio il tardo settecento partenopeo. Drammaturgicamente, quel che ne vien fuori è un clima di quieta staticità, di una poetica conservatrice con cui spesso i registi devono fare i conti. Da una parte, quindi, una lettura romantica e tradizionale – per certi aspetti quella, peraltro molto bella, già andata in scena a Cagliari nell'allestimento proveniente dal Filarmonico di Verona, dove lo vidi, e disponibile su dvd nella ripresa cagliaritana - come quella di Hugo De Ana: una Svizzera ottocentesca, con rimandi a Visconti, con l'uso di suggestivi tableux vivants. Dall'altra, il Regietheater con l'ansia dell'horror vacuii, un ossessivo movimento ovunque e comunque, qualche lungo impermeabile nero, magari scene da un manicomio che ci stan sempre bene.
Il Lirico di Cagliari ripropone il capolavoro belliniano a distanza di quattordici anni (per inciso, si attende che si dia spazio anche ad altre opere belliniane oramai di repertorio come I Capuleti e i Montecchi o Il Pirata, e magari anche Beatrice di Tenda o La Straniera) e lo recupera da una produzione della Fenice di Venezia del 2012, ripreso a Firenze nel 2017. Spettacolo in cui Bepi Morassi riesce a trovare una mediazione tra una narrazione che rispetta il fragile equilibrio dell'opera e l'esigenza di 'fare' spettacolo, anche quando un momento di stasi è fortemente richiesto dalla partitura. Non è una lettura radicale, non ci sono per l'appunto rimandi a didatture degli anni bui, proiezioni, neon, futuri improbabili (Amina nella scena del sonnambulismo non esce da una navicella spaziale, ad esempio...); l'azione è piacevolmente ambientata in una stazione sciistica svizzera attorno agli anni Trenta; sul pennone, ben agitata da ventilatori (immagino) fuori scena, la bandiera rossa con croce bianca sventola in maniera naturale. Uno sfondo di Alpi innevate (le scene, curate, sono di Massimo Cecchetto), su cui si affaccia una terrazza popolata di turisti e sciatori; in questo trionfo di luce (firmata da Vilmo Furian) fa macchie cromatiche intense il pullman rosso, rosso come la funivia che giunge da valle trasportando anche il Conte (e passiamo sopra sul contraddittorio “Qua rumore di cavalli” per l'arrivo della 'carrozza' che recita il libretto). Tutto gradevole, sì, ma un filino intriso come dal terrore della staticità, un iperrealismo che si trasforma in una ossessione per cui in scena deve esserci sempre movimento, con controscene che si susseguono l'una dopo l'altra, anche nei momenti in cui la musica chiederebbe una stasi. Ecco quindi i coristi usare le sdraio, trasportare i propri sci, osservare il distributore girevole delle cartoline (dove il Conte andrà a frugare nella sua memoria...). C'è chi guarda col cannocchiale, chi maneggia una carta geografica, un va vai di valige di Teresa, il cuoco che porta, i coristi che assaggiano, l'anel donato di Amina subito mostrato alla madre, il vassoio che cade di mano ad Alessio, lo Jagermeister, il massaggio di Elvino ai piedi di Amina... a volte davvero troppo, anche se davvero ben curato (e ben reso dagli artisti in scena). Meno entusiasmante la scena pecoreccia tra il Conte e Lisa e poco efficace il sonnambulismo dietro una grande vetrata di un salone dell'Hotel alpino (a coprire la scena, la folla di coristi e tavolini). Lo spettacolo però piace, non disturba un pubblico cagliaritano sempre più abituato a messe in scena rassicuranti. Carlos Tieppo firmava i costumi ben diversificati e coerenti con l'ambientazione.
Che il giovanissimo direttore Diego Ceretta, al suo debutto in un'opera di repertorio, abbia letto con attenzione la partitura è fuor di dubbio: sin dall'Introduzione riesce a coniugare con spigliata disinvoltura quel delicato arabescare dei fiati con gli interventi brillanti della banda sul palco (“in lontananza”); ma tutta l'orchestra è parsa in forma smagliante, come in totale sintonia col direttore, dall'ottimo l'inciso dell'oboe prima della cavatina di Lisa alle fioriture dei clarinetti e al raddoppio del corno nell'entrata di Elvino al morbido suono dei violini su accordi tenuti di viole nell'aria di Rodolfo. Forse il momento più alto Diego Ceretta lo ottiene nel concertato dello smarrimento, al termine dell'atto primo; la voce di Amina (Gilda Fiume, qui al suo meglio) è sostenuta da archi dal suono davvero impalpabile, i corni – nitidi e cremosi assieme – si inseriscono con delicatezza, mentre intervengono le voci degli altri protagonisti fino a una stretta in cui Ceretta dà ottima prova di equilibrio tra palcoscenico e fossa orchestrale.
Gilda Fiume è dotata di buona tecnica, di un timbro morbido e ben proiettato; le si addice la dolcezza del primo cantabile, “Come per me sereno”, ha un solido registro acuto che tocca con sicurezza il Re bemolle della prima cabaletta; la Fiume (che ha già affrontato il ruolo di Amina sei anni fa e che a Cagliari è stata anche Lucia di Lammermoor) ha un'ottima tenuta dei fiati, legature eteree nel “Ah! No credea mirarti”, tuttavia, quel che non convince è proprio il finale, dove la cabaletta ha da esprimere una gioia irrefrenabile che si evidenzia con una coloratura sfavillante. Invece, non so se di proprio repertorio o scritte dal direttore, le variazioni sono alquanto sbiadite se non scipite, mancano di mordente, sono prive d'un qualsiasi stupore virtuosistico. Insomma, una Sonnambula corretta, ma non memorabile. Il pubblico applaude, e forse è quel che alla fine interessa più agli artisti e ai vertici del teatro. Chissà.
Elvino è l'inossidabile Antonino Siragusa, già protagonista della passata edizione cagliaritana del 2008; ruolo impervio, che il tenore affronta con mestiere, con quella tenerezza interpretativa che il suo timbro non gli concederebbe naturalmente e che comunque ha conquistato con la serietà e il rigore che gli son proprii. “Ah, tutto il core” è sfumato da antologia, e “Ah! perché non posso odiarti” rende perfettamente il tragico struggimento di Elvino. Il registro acuto è privo di forzature, ma ha acquisito fibrosa robustezza; va tuttavia segnalato che nella seconda parte dell'opera, invero, l'intonazione a volte non è apparsa impeccabile.
Rodolfo era affidato a Guido Loconsolo; bella carriera, ma – almeno per me, in questa serata – prestazione fortemente insufficiente. La sua aria in due tempi è definita “Andante cantabile-Allegro-Allegro moderato”, e il testo chiede letteralmente di evocare una malinconica nostalgia. Loconsolo butta via il canto con distrazione, “i dì passai” non ha alcuna cantabilità, manca di nobiltà (suvvia, è pur sempre il Conte!) e l'assenza di applausi al termine della sua aria qualcosa avrà pur significato. Infelice, nella camera d'albergo, tutta la scena con Lisa, ma qui la responsabilità è da addebitarsi al regista, che ha optato per una dimensione su cui è meglio tacere.
Michela Varvaro esordisce con un “Tutto è gioia” compitato con vivacità ma con un ché di querulo; ma nella scena sesta del secondo atto la sua aria, da vera e propria seconda donna, i trilli, le turbinose scale, i numerosi Do si risolvono in una imbarazzante debacle (il che spiega perché un tempo l'aria veniva tagliata). Molto ben riusciti invece i ruoli minori di Teresa (Irene Molinari), Alessio (Andrea Porta) e soprattutto – nonostante la brevità della parte – del Notaro, in cui si è apprezzata la voce di Andrea Schifaudo.
Un plauso alla prova del coro (ancora con le mascherine, forse non più indispensabili?), preparato impeccabilmente da Giovanni Andreoli. Applausi convinti e atmosfera festosa a fine recita.