Dall’America ad Amelia
di Francesco Lora
Un ballo in maschera, al Teatro alla Scala, ha versi cambiati e un discutibile nuovo allestimento firmato da Marco Arturo Marelli. Mancata l’attesa concertazione di Riccardo Chailly, la lettura dell’opera verdiana passa a Nicola Luisotti e a Giampaolo Bisanti. Con quest’ultimo, alle ultime due recite, la compagnia di canto vede confermati Francesco Meli e Sondra Radvanovsky, con l’ingresso però di Ludovic Tézier e Okka von der Damerau al posto di Luca Salsi e Yulia Matochkina.
MILANO, 22 maggio 2022 – Gustavo III, Una vendetta in domino, Adelia degli Adimari, Il Conte di Gothemborg, Un ballo in maschera: si tratta all’incirca della stessa opera di Giuseppe Verdi, in cinque fasi di adattamento del libretto – epoca, luogo e rango rispettivo dei personaggi – al fine d’incontrare, passo dopo passo, il via libera della censura prima borbonica e poi pontificia. La versione definitiva, collocata a Boston sul finire del Seicento, con protagonista Riccardo, conte di Warwich e governatore inglese, è definitiva per davvero: sia il compositore sia il librettista Antonio Somma non sentirono l’urgenza di ripristinare alcunché. Per semplice curiosità, purché sia una tantum, allo scorso Festival Verdi del Teatro Regio di Parma è stato rispolverato il primo libretto, intervenendo con mano leggera sulla musica (dove inevitabile) e comunque sotto il controllo della filologa che ha curato l’edizione critica, Ilaria Narici. Guai, invece, a voler fare da sé – come invece spesso si è fatto – inventando parole sostitutive utili a cambiare Boston nella primitiva Stoccolma e il conte Riccardo nel primitivo re Gustavo III. Benché la Narici stessa firmi un saggio nel relativo programma di sala, non è invece chiaro da dove provengano le dichiarate e abbondanti varianti, poetiche e teatrali, proposte e ascoltate nelle recenti sette recite di Un ballo in maschera al Teatro alla Scala: 4-22 maggio. Diverse tra esse sanno di errore emendato: per esempio, nell’atto I, seconda strofa della canzone di Riccardo, vento diviene nembo, e rima così finalmente con grembo, come del resto, in tutte le sestine del brano, l’ultima parola del quarto verso rima sempre con l’ultima del secondo; ordine è fatto. Altrove, c’è da storcere il naso: nell’atto III, scena III, «Sconterà dell’America il pianto», decasillabo, diviene «Sconterà della patria il pianto», che come decasillabo zoppica e puzza di novenario irregolare. Sarà poi politically incorrect e contrario alla cancel culture, ma cos’altro dovrebbe dire un giudice razzista, nell’atto I, scena IV, se non che la fattucchiera Ulrica è «dell’immondo | sangue dei negri»? No: alla Scala si recita che costei è «del demonio | maga servile», senza che alcuno si chieda, piuttosto, perché mai questa «indovina di razza nera» – così nell’elenco dei personaggi – continui a portare un nome tipicamente scandinàvo anche nei bassifondi del New England. Infine, un pasticciaccio brutto: nell’ultima scena dell’opera, Riccardo agonizzante non dice più «Addio, diletta America...» – il verso che imbarazzava l’Italia fascista durante la seconda guerra mondiale, e che dunque finiva censurato col continente generalizzato patria – bensì «Addio, diletta Amelia...»; finisce così al macero l’effetto voluto dagli autori: tutti si aspetterebbero, cioè, che Riccardo invochi la donna da sé appassionatamente amata, ed egli, invece, dopo le prime due sillabe, termina la parola invocando la terra da sé amorevolmente governata. (Siccome poi l’Amelia in questione è una mezza adultera, c’è da temere che il marito Renato, mezzo becco e tanto infuriato da essersi fatto assassino, dopo tale pubblica invocazione della moglie non esiterà a terminare la storia, dietro le quinte, nel pestaggio femminicida fino a quel momento miracolosamente scampato.)
Incuriosirà il fatto che tutte le varianti testuali in oggetto non abbiano effettivo ruolo, alla Scala, nel simultaneo nuovo allestimento con regìa, scene e costumi di Marco Arturo Marelli. Peggio: finiscono contraddette; per esempio, quando Riccardo continua a farsi chiamare conte da tutti, ma nel contempo lo si vede posare per un ritratto nelle vesti regali di Gustavo III, con tanto di scettro ed ermellino. Ci sono cose buone: le lunghissime, quasi infinite prospettive architettoniche, verso il buio e insondabile fondo del palcoscenico, danno conto del fine mestiere scenografico di Marelli. Però va anche detto che la trasposizione spazio-temporale a uno spazio e a un tempo indecifrabili non serve. Però va anche detto che il lavoro con gli attori sembra lasciato alla goffa improvvisazione degli attori stessi. Però va anche detto che mettere ad aggirarsi una brividosa morte personificata dà più ridarola che tremarella. Fino a un errore drammaturgico: nel pieno della festa e prima che il pugnale di Renato trafigga il governatore, Riccardo e Amelia si scambiano furtivamente le ultime parole d’amore e d’addio; lo fanno nell’indifferenza degli invitati, col timore di essere scoperti e dunque costretti a simulare e contenersi; nella regìa di Marelli, al contrario, la scena si sgombra e gli amanti possono godersela da soli: del fremente sussurro apparecchiato dagli autori svanisce ogni traccia. Il poco entusiasmo di chi scrive prosegue nel dare conto della parte musicale. Il concertatore di questo Ballo in maschera doveva essere Riccardo Chailly, dal quale era lecito attendersi un’ennesima lezione di esegesi testuale; caduto egli in malattia, il podio è passato d’urgenza a Nicola Luisotti, concertatore e direttore per le prime cinque recite, e a Giampaolo Bisanti, soltanto direttore per le ultime due. Alla recita conclusiva, qui recensita, affidata a Bisanti, la cronaca è di un lettura impostata per mettere in sicurezza uno spettacolo sfortunato: l’orchestra e il coro della Scala confermano la loro salute tecnica e la lunga esperienza, mentre la bacchetta non si espone ai rischi di una via interpretativa oltre l’abitudine. Essa può confidare in un Riccardo autonomo: Francesco Meli conosce a fondo la parte e vi associa una vividezza timbrica e una passione scenica in sé ideali; peccato che riemergano qui e là i limiti tecnici per i quali l’emissione, normalmente liberissima, s’ingola all’improvviso e conduce all’affaticamento. Impressionante protagonista nella Turandot di marzo all’Accademia nazionale di Santa Cecilia, Sondra Radvanovsky trionfa, a sua volta, in nome di quel credito acquisito, piuttosto che per questa sua Amelia così rabbiosamente e vetrosamente tuonata, e dall’intonazione nemmeno troppo esatta. Nelle ultime recite interessa soprattutto chi raccoglie il testimone di Luca Salsi come Renato: meno dovizioso nei mezzi canori e meno disinvolto nella prosodia italiana, Ludovic Tézier scansa però i modi bruschi da vilain e ne esibisce da vero grand seigneur. Diversa è anche Ulrica, che passa da Yulia Matochkina a un’Okka von der Damerau visceralmente en poitrine e a misura piermariniana. Diligente Federica Guida come Oscar. Più orcheschi che insinuanti i congiurati: il Samuel di Sorin Coliban e il Tom di Jongmin Park.