Scala, Surrealismo e Alagna
Fedora di Umberto Giordano, a Milano, diviene soprattutto vetrina del patrimonio vocale di Roberto Alagna. Per azzardo di repertorio, Sonya Yoncheva incontra invece difficoltà, così come la regìa di Mario Martone manca il segno e la direzione di Marco Armiliato non punta alto.
MILANO, 21 ottobre 2022 – Sono in corso e ci aspettano stagioni d’opera fatte in buona parte di recuperi, cioè di produzioni previste nel corso dell’emergenza sanitaria del 2020-21, saltate a loro tempo e ora proposte tra aspettative maturate e rattoppi alle locandine. La Fedora di Umberto Giordano andata in scena al Teatro alla Scala, per sette recite dal 15 ottobre al 3 novembre, è per esempio il nuovo allestimento cui si avrebbe assistito nel giugno 2020. Si parlava di aspettative, registiche innanzitutto. Mario Martone ha già firmato, alla Scala, con plauso, la lettura teatrale di due opere di Giordano: La cena delle beffe, nel 2016, e Andrea Chénier, l’anno dopo. Ogni lavoro di questo compositore è però un mondo drammaturgico a sé, così come un rinvio di due anni abbondanti implica il possibile invecchiamento di certe idee o il doveroso affinamento di altre; né va taciuto, tra le premesse, che la storia di Fedora alla Scala, nell’ultimo trentennio, corrisponde a un’oleografica e non per questo meno azzeccata regìa di Lamberto Puggelli, tenuta in servizio per la bellezza di ventitré recite. Spiace, allora, che un regista cinematografico sempre più esperto d’opera, qual è Martone, faccia esercizio di stile e in esso si impantani, a causa di un testo a lui poco congeniale e inquadrato di scorcio cervellotico anziché affrontato nella sua mera sostanza. Detto in parole povere: Fedora è un’opera dal carattere morboso, decadente, per così dire atmosferico nell’imprevedibile e continuo evolvere di accadimenti e ambientazioni, dove ciò che potrebbe essere un simbolo rimane anzitutto la cosa in quanto tale; Martone la fa invece percorrere, visivamente, da citazioni pittoriche surrealistiche di René Magritte, come Les amants e la serie L’empire des lumières: cosicché poco ci manca – forse, quel che è peggio, involontariamente – al procedere per antifrasi. Rimane fuori discussione il buon lavoro con gli attori, purché i divi di turno lo accettino senza puntare i piedi. Spiazza l’astensionismo drammaturgico quando, a metà dell’atto II, l’intermezzo strumentale è eseguito a sipario chiuso, anziché accompagnare la sequenza di fatti muti, da mimare, che il libretto prescrive e la partitura sostiene. Lasciano un segno blando le illustri collaboratrici: Margherita Palli, la scenografa qui irriconoscibile per quel braccio destro che fu di Luca Ronconi, e Ursula Patzak, che nell’asciutta iconografia martoniana è richiesta di disegnare vestiti più che costumi.
Dopo le aspettative registiche, gli avvicendamenti musicali. Daniel Oren, e soprattutto l’Oren degli ultimi anni, pittore della musica tra Otto e Novecento, ispirato ed esigente oltre che devoto ai cantanti, sarebbe stato il concertatore ideale per questa Fedora; aveva già diretto l’opera quando Mirella Freni ne fece il cavallo di battaglia degli ultimi anni di carriera, e ora avrebbe potuto ristudiarla in vista del sempre più prestante stato tecnico dell’orchestra della Scala; era appunto stato scritturato, con accorta intuizione, per dirigerla nelle annullate recite del giugno 2020. La bacchetta è però passata, nel recupero, a Marco Armiliato, direttore di altro segno. Più a suo agio in Giordano e al chiuso della Scala che non in Giuseppe Verdi e all’aperto dell’Arena – si pensa al recente e flemmatico Ernani all’Opera di Roma, nonché ai ben quattro titoli condotti l’ultima estate a Verona – egli cavalca in sicurezza il sontuoso spolvero dei complessi milanesi; si accontenta di assecondare i desiderata dei cantanti, ossia le libere e sterminate corone del tenore anzitutto; tollera, infine, l’ingenuità del pianoforte visibile in scena ma suonato in buca, là ove in Fedora il pianista è un personaggio con nome e cognome e il suo strumento accompagna, in quanto tale, con impegnativo rilievo solistico e muffosa parafrasi chopiniana, parecchi minuti dell’opera. Il tenore delle corone era, per le prime tre recite, Roberto Alagna nei deuteragonistici panni del Conte Loris Ipanov: ha quasi sessant’anni e invariabilmente timbro malioso, campata grande e porgere signorile, con coefficienti tali da far tacere su qualche momento di sforzo vocale o pigrizia scenica. Più tortuoso è il discorso sull’interprete protagonista: Sonya Yoncheva è uno schietto soprano lirico, attratto dal calibro drammatico in vista di un upgrade di mercato; pensa assai alla tecnica – proietta e timbra da maestra – ma non ha ancora assimilato i caratteri idiomatici del fraseggiare e conversare all’italiana; paga il fio, in ultimo, di una parte tutta maleficamente giocata sullo sbalzo tra registro acuto, in lei rilucente, e registro grave, in lei invece sordo, stancante, con un accesso ostico alla necessaria risonanza di petto. Spaesati nel macchiettismo dell’atto II, si rifanno nel caratterismo del III sia George Petean, come De Siriex di sommo lusso, sia Serena Gamberoni, come Contessa Olga Sukarev: ma la Scala aveva dapprima promesso, per questa parte, addirittura Mariangela Sicilia.