Il primo dittico del Trittico
di Stefano Ceccarelli
L’Opera di Roma mette in scena la prima parte del Trittico di Giacomo Puccini, Il tabarro, assieme a Il castello del principe Barbablù di Béla Bartók. A concertare è Michele Mariotti; la regia è affidata a Johannes Erath. Nel cast delle due opere vanno almeno citati Luca Salsi, Gregory Kunde, Maria Agresta, Szilvia Vörös e Mikhail Petrenko.
ROMA, 11 aprile 2023 – La direzione artistica del Teatro dell’Opera di Roma ha progettato, per questa e le prossime stagioni, un’operazione artistica interessante: rappresentare il Trittico di Giacomo Puccini scomponendolo, ovvero eseguendo le singole opere pucciniane con altre che con quelle del Trittico hanno un qualche legame. Il progetto è affidato alla direzione di Michele Mariotti e si inizia con Il tabarro affiancato da Il castello del principe Barbablù di Bartók; dittico, questo, peraltro non inedito, come ricorda il regista Erath nell’intervista allegata al ricco e informato programma di sala.
Michele Mariotti legge le due partiture come meglio non si potrebbe, complice anche una certa qual naturale sensibilità del direttore con questo repertorio. Mariotti ha sempre mostrato sensibilità per la purezza sonora, sapendo valorizzare ogni effetto al meglio; è, inoltre, essenzialmente un uomo di teatro, nel senso che il repertorio operistico è quello d’elezione, avendo sviluppato una notevole sensibilità per riconoscere e valorizzare gli elementi drammatici delle opere che dirige. L’orchestra del Costanzi, da par suo, risponde benissimo, regalando una notevole serata di musica. Mariotti propone una lettura del Tabarro netta, tagliente, sapendo ben valorizzare i momenti di maggiore tensione; il direttore riesce a creare una sotterranea vibrazione che sfoga nelle arie dei protagonisti, come pure nel fosco finale. A testimoniare la sensibilità di Mariotti basterebbe proprio l’introduzione dell’opera, quando Puccini ricama sul tema evocante la Senna: qui il direttore culla sinistramente un tema impastato di colori acquatici, stagnanti.
Altro talento di Mariotti è quello di saper accompagnare ed esaltare le voci, che, per questo Tabarro, possono ben dirsi straordinarie. Innanzitutto Luca Salsi, che nel ruolo di Michele è fenomenale. Salsi, uno dei migliori baritoni al mondo nei ruoli italiani a cavallo fra ‘800 e ‘900, dà mostra di un fraseggio vario, irto del dolore, misto a rancore e gelosia, di Michele. Ne esce un personaggio perfetto, che raggiunge vette di puro, commovente lirismo (come nel duetto con Giorgetta, quando ricorda il loro defunto figlio) o accessi d’ira e di dolore nel suo monologo («Nulla!...Silenzio!»), fra i momenti migliori della serata. Del pari straordinaria è la Giorgetta di Maria Agresta, in forma vocale smagliante: la voce, acuta, piena e penetrante, avvolge l’intero teatro e la Agresta sa modellarla come vuole, per toccare tutte le corde emotive del personaggio. La Agresta sa cogliere momenti di fresco fraseggio, come pure di intenso lirismo, nei quali non di rado regala perlacei filati: si pensi al dolceamaro duetto con Luigi, la cui scrittura musicale si muove, appunto, fra la dolcezza del sentimento amoroso e l’impossibilità di goderlo fino in fondo. Assolutamente lussureggiante il suo monologo («È ben altro il mio sogno!»), dove la voce si erge chiara, raccontando i suoi sogni. Smagliante, acuto, vibrante il Luigi di Gregory Kunde, il cui mezzo vocale è in forma eccellente. Kunde, che pure è avvezzo a ruoli di più largo lirismo, dà prova di meritarsi gli applausi anche in una parte, quella di Luigi, che consiste sì in un tenore amante, a tratti lirico, ma che possiede parti maggiormente energiche. Ebbene, Kunde si muove egualmente bene su tutte e due i fronti; si pensi, solo, al già citato duetto con Giorgetta ed al suo vibrante arioso, che ha acuti violenti al suo culmine («Hai ben ragione; meglio non pensare»). Tutti i comprimari, inoltre, si distinguono per un’eccellente performance, a cominciare da Enkelejda Shkoza, una Frugola dalla voce piena e brunita; gli altri sono: Didier Pieri (Tinca), Roberto Lorenzi (Talpa), Marco Miglietta (Venditore di canzonette), Valentina Gargano ed Eduardo Niave (Due amanti).
Se Mariotti esalta le venature di ferrigna tensione del Tabarro, leggendo Il castello del principe Barbablù lavora nel rarefare l’orchestra, allargare le frasi, screziare i particolari armonici di cui è imbevuto il capolavoro di Bartók, nel pieno rispetto dello stile ‘simbolista’ dell’autore: l’effetto è quello di far vivere tutta la bellezza della partitura, accumulando energia per i momenti più topici, cioè l’apertura delle varie porte del castello. Le voci sono anche in questo caso eccellenti. Mikhail Petrenko scolpisce un Barbablù viperino, sonoro, curando il fraseggio nei minimi dettagli e donando quell’ambiguità del personaggio che nella lettura del librettista Balázs è ancora più marcata; Szilvia Vörös, che ha una voce chiaroscurale ed un perfetto controllo tecnico, deliba tutte le corde del personaggio di Judit, dall’ingenuità, alla seduzione, fino allo sgomento per le varie scoperte.
Lo spettacolo, dunque, è pienamente convincente per quanto riguarda la parte musicale e vocale. Ciò che, a mio avviso, convince meno è la regia di Johannes Erath. Ma si parta dalla scenografia (Katrin Konnan). L’idea generale di Erath è quella di creare una sorta di legame fra le due opere, pur non generando, però, un’effettiva continuità narrativa. La scenografia, dunque, oscilla fra riferimenti reali e simboli astratti e gioca, in ambedue i casi, su un fondale spesso indefinito, ravvivato con immagini allusive alla trama dell’opera. Nel Tabarro, infatti, compare spesso una sgraziata riproduzione de L’isola dei morti di Böcklin, mentre nel Barbablù si riproducono le acque del lago di lacrime, o le sette porte in taglio prospettico. In Tabarro il sincretismo fra realismo e simbolismo è molto marcato, tale da creare non poche incertezze in alcuni momenti della lettura scenica dell’opera. Si pensi, per esempio, al contrasto forte fra i costumi e gli oggetti di scena, che sono contemporanei, ed elementi simbolici, come le piccole ballerine che improvvisano il celebre pas de quatre del Lago dei cigni; o ai due amanti sulle rive della Senna, di cui una tiene in mano una strobo-sfera. Tali elementi astratti, peraltro, sono proprio il trait d’union fra Tabarro e Barbablù: nel finale di quest’ultima, infatti, compare una piccola ballerina e le mogli del re sono le stesse comparse che, nel Tabarro, alludevano alla bella vita parigina agognata da Giorgetta. Insomma, per Erath v’è un chiaro legame simbolico fra le due dimensioni, giostrato dal ricco dispiegamento di comparse. Il problema della lettura registica di Erath sta, dunque, nella gestione di alcuni momenti salienti, come il finale del Tabarro, dove in scena non compare nessun tabarro. O l’intera idea registica del Barbablù, opera tanto simbolica, quanto statica e, quindi, bisognosa di un’attenta gestione scenica per essere ravvivata (per fare giusto un esempio, non c’è traccia di una macchia di sangue in nessuna delle scene). Ciò avviene, anzi, solo all’inizio, quando il prologo dell’opera viene recitato da una serie di voci e Petrenko è intento a sparecchiare un tavolo, evidentemente per nascondere l’esistenza delle altre mogli nel palazzo (momento non molto apprezzato, almeno da una parte di pubblico, giacché si sente dal pubblico qualcosa come «Dateci Bartók»). Ciò detto, qualche momento interessante Erath lo ha regalato: vorrei citare almeno l’apertura della quinta porta, in cui il palco si riempie progressivamente di luce, allo spostarsi dell’impalcatura.
In generale, comunque, gli spettatori non sembrano aver particolarmente gradito una regia, quella di Erath, che pur presentando qualche bel momento, si assesta su alti e bassi, non donando una visione compiuta ed armonica. Al contrario, non si può che essere grati a Mariotti ed al cast vocale, come pure alle maestranze del Costanzi, per la bella serata di musica.